- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, str. 15–19
- jedná se o překlad původního dokumentu:
- Budu vystupovat v televizi?
Apparirò in televisione? [1978]
L’inizio fu il solito. Alle 13 del venerdi in cui la Corte suprema doveva pronunciare la sentenza nei confronti dell’ing. Aleš Macháček e di Jiří Laštuvka (accusati di attività sediziosa in quanto nelle loro abitazioni era stato sequestrato materiale pubblicato all’estero in lingua cèca, annate di riviste edite in Cecoslovacchia prima dell’agosto ‘69 e una copia dattiloscritta del manifesto di Charta 77 del 1° gennaio 1977 – n. d. t.), la polizia segreta venne nel luogo dove lavoro. «Allora andiamo di nuovo, lei già lo conosce, signor Hejdánek». Chiesi a quei signori di mostrarmi il mandato scritto: non l’avevano. A quanto dicevano, io posso essere convocato oralmente e subito mi recitarono l’avviso di comparizione, secondo il § 19 della legge sulla polizia. Chiesi di quale faccenda si trattava. Risposero che l’avrei saputo dopo. Il mandato, quindi, non era opportuno. Fino ad ora, io, davanti a un mandato scritto, non ho mai opposto alcun rifiuto; perché adesso loro usano questa prassi illegale e fuori del comune? Feci notare anche che io lavoravo fino alle 15,30 e che fino a quell’ora, dato che poi il salario perduto non mi viene risarcito, non potevo andare con loro. Chiesi anche di poter telefonare a casa: non me lo permisero. Dato che rimanevano nella loro posizione, dissi che potevano ripetere, se lo volevano, l’esperienza fatta con il signor Tomin (Julius Tomin, filosofo, firmatario della Charta, quando nell’ottobre 1977 venne invitato a presentarsi alla polizia si rifiutò di seguire i funzionari e fece per dieci giorni lo sciopero della fame – n.d.t.). E così mi presero, mi trascinarono lungo il corridoio e le scale fino al cortile; mi tiravano all’indietro e senza tanti complimenti mi scaraventarono dentro un’auto che era in attesa. A questo punto registrai la prima sconfitta. Mi ero ripromesso di non dire una parola. Nel caso di Tomin, infatti, mi aveva stupito soprattutto il suo silenzio. Volevo vedere se ci riuscivo anch’io. Ma per mia vergogna resistetti appena due minuti. Ansimando annunciai ai funzionari che avevo perso una scarpa. Dissero che non gliene importava niente e mi spinsero dentro la macchina. Mi vergognai come un ladro. Qui sono in gioco la libertà e la dignità dell’uomo e io mi sto a preoccupare della mia scarpa. Non dirò più una parola; decisi.
Il viaggio fu nel complesso tranquillo. I funzionari ripresero fiato e quello che sembrava il più importante minacciò: Se ti muovi, vedi. Le mani sulle ginocchia e neanche una mossa. Non reagivo. Arrivati nella Bartolomejská (strada di Praga in cui si trova la sede centrale della polizia – n.d.t.), mi invitarono a scendere. Io non reagivo. Imprecarono, fecero minacce. Peggio ancora di quando mi avevano infilato dentro, mi tirarono fuori dall’auto. Mi sbatterono di proposito la testa contro la portiera della macchina. Poi, coprendomi di insulti, mi trascinarono attraverso la strada e il marciapiede fino a un edificio di mattoni. Non mi tenevano per le mani, ma per le maniche, e mi trascinarono su per i gradini all’indietro, fino alla portineria. Per la prima volta sentii davvero male. Mi appoggiarono alla guardiola del portiere. Ma a quest’ultimo la cosa non andava a genio. «Dato che ve lo siete andati a prendere, sbattetevelo da qualche parte: di qui fra un po’ passeranno tutti i capi». Così mi misero dietro un paravento e uno andò a telefonare per chiedere aiuto ai suoi colleghi della divisione. Dopo un po’ arrivarono due e si unirono al coro di insulti dei primi («vacca», «cornuto» e altri epiteti del regno animale, oppure «ecco il portavoce», «l’eroe nazionale» e simili). Mi portarono all’ascensore, dandomi a turno dei calci. (Devo ammettere che usarono molta moderazione; solo un calcio nella spina dorsale mi fece più male. Probabilmente era un allenamento). Arrivati al secondo piano, dall’ascensore mi buttarono nel corridoio e mi trascinarono in una delle stanze, dove mi lasciarono steso per terra. Uno mi pestò il piede che era senza scarpa. Non gli parve sufficente e schiacciò di nuovo (niente però di catastrofico), alcune volte, la caviglia dicendo: «Non vuole alzarsi?». Naturalmente restavo sul pavimento. Poi uscirono tutti per calmarsi e con me ne rimase uno solo.
Passata un’ora, cominciarono a perdere la pazienza. Nel tentativo di accelerare un po’ i tempi spalancarono completamente la finestra, seguendo il suggerimento di uno di loro. Attraverso un esperimento su due lati, ebbi la possibilità di constatare che a un uomo i piedi tremano dal freddo solo per un quarto d’ora circa, poi il corpo si adatta e i piedi smettono di tremare; anche quello senza la scarpa. Ogni tanto l’atmosfera gelida era interrotta: «E cosi non ha intenzione di parlare, signor Hejdánek?» Non fiatavo. Dopo un po’ aprirono anche la porta e la corrente scherzando mi sollevò i capelli. I piedi ricominciarono a tremare. Ormai, però, sapevo che non mi dovevo preoccupare e che con un po’ di tempo il corpo si sarebbe saggiamente adattato, sponte sua. Non c’è niente di meglio dei mezzi naturali che sfuggono a qualsiasi costrizione. Riescono ad adattarsi quasi a tutto. Ed è vero. Sulle cinque cominciò a prendermi un crampo al piede; la schiena mi faceva un male terribile; il dolore mi chiudeva lo stomaco (negli ultimi tempi mi si era risvegliata l’ulcera, per cui dovrei mangiare spesso qualcosa); al colmo di tutto – con rispetto parlando – mi era anche venuto bisogno di andare al gabinetto. Non c’è niente di meglio dei processi organici. Ovviamente non potevo alzarmi senza dir niente e andarmene da un’altra parte: avrebbero anche potuto mettersi a sparare. Mi vedevo costretto a parlare. Ebbi il permesso e una scorta. Mi alzai tutto anchilosato e feci una certa fatica a muovermi (del resto provate voi, anche senza un principio di congelamento, a camminare con una scarpa sì e una no).
Quando ritornai, un po’ camminavo, un po’ mi mettevo dietro la sedia appoggiando le mani sullo schienale, un po’ mi mettevo anche (prima che me lo impedissero) a «sedere» sul tavolo. Un giovanotto più gentile (era venuto in un secondo momento e mi aveva anche salutato cortesemente mentre ero sul pavimento e mi dispiacque di non avergli risposto; dopo però gli feci le mie scuse) mi disse che potevo, come era già successo un’altra volta, sdraiarmi sul tavolo (tutti sanno che ho dei fastidi con la spina dorsale e che ogni tanto non riesco a stare seduto). Accettai la proposta e mi stesi. Dopo un po’ arrivò un altro e mi disse di mettermi di nuovo sul pavimento.
Lo feci. Egli – erano già le sette di sera – per la prima volta chiuse la finestra lasciando aperta solo la ventilazione. Dopo circa mezz’ora si aprì la porta e apparve un uomo che in precedenza (unico) si era presentato a me come Uhlíř. Aveva accanto uno che portava una telecamera. Uhlíř mi fece sapere che mi avrebbe posto alcune domande e che esigeva da me risposte precise, in base al § 15 della legge sulla polizia; quindi che mi alzassi. Lo feci. Rimasi però appoggiato alla sedia. Ascoltai le istruzioni; poi mi chiesero che cosa sapevo di certi volantini che mi mostravano. Li vedevo per la prima volta. Risposi che non ne sapevo niente. Non ne conoscevo il contenuto. Mi intimarono di dire tutto quanto fossi in seguito venuto a sapere circa i volantini. Tutto, intanto, veniva filmato. L’inquirente mi chiese di spiegare il motivo per cui non avevo voluto obbedire all’intimazione dei poliziotti a seguirli, per cui avevano dovuto trascinarmi di peso. Risposi che la spiegazione l’avevo data sul posto. La ripetei e aggiunsi che i funzionari mi avevano trascinato a forza prendendomi anche a calci. Altra domanda: Perché mi comporto in questo modo sconveniente, quando invece Charta 77 si proclama per il rispetto delle leggi? Risposta: Davanti ad una illegalità continuata bisogna trovare sempre nuove forme di protesta. Alla fine mi chiesero come pensavo che i cittadini avrebbero giudicato tutta la faccenda dopo aver visto le scene filmate. Risposi che il filmare l’interrogatorio senza chiedermi l’autorizzazione era solo un’altra illegalità. Comunque gli spettatori si sarebbero fatti certamente la loro idea. Feci infine notare di nuovo che avevo una scarpa sola e che non me ne sarei andato al freddo con un calzino. Sparirono tutti e rimanemmo ancora una volta in due. Mi distesi per terra. Dopo un’ora e mezza fui condotto di sotto, scendendo per le scale. Mi mossi con molta fatica. Fui infilato in un’auto stravecchia e accompagnato a casa. La vettura sballonzolava terribilmente e la schiena ricominciò a farmi male. Ma che cosa conta la schiena se sono in gioco la libertà e la dignità dell’uomo? Loro, forse, vogliono mettermi alla televisione in qualche nuova campagna diffamatoria, con gli abiti da lavoro da cui avevano strappato i bottoni, con i capelli tutti spettinati, stanco e ammaccato. Ma sarà uno scandalo per me?
7 gennaio 1978.