- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, str. 69–77
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- Dopis příteli č. 7
Caro amico,
sono molto contento che tu mi abbia chiesto di dire qualcosa sulla recente morte del professor Jan Patočka. Patočka è per me uno dei numerosi nostri pensatori nazionali su cui io mi orientavo. Devo subito riconoscere che sulla mia evoluzione intellettuale e sulla mia impostazione generale il suo influsso non è stato il più importante. L’impronta indelebile l’ha impressa in me un filosofo con cui non mi sono mai incontrato: Emanuel Rádl. Forse te ne scriverò una volta: Rádl era un pensatore straordinario, affascinante, ma aveva certe sue particolarità curiose. Per queste sue particolarità stette sempre un po’ sui nervi a Patočka, che in particolare non poteva sopportare quegli sbarbatelli di studenti che facevano continuamente riferimento a Rádl, lo citavano e portavano proprio quelle stranezze ai seminari o alle conferenze di Patočka. Mi ricordo che una volta un mio collega della facoltà citando una frase di Rádl al seminario dell’YMCA (Young Man Cristian Association – n.d.t.) irritò a tal punto Patočka che quello si alzò e uscì un momento nel corridoio per farsi sbollire l’ira. Eppure Patočka seppe pronunciare su Rádl parole di massimo rispetto. Benché tutta la vita di Patočka sia stata strutturata diversamente da quella di Rádl, molto più accademica e in un certo senso più borghese (non so come dirlo meglio: il pathos di Patočka era percepibile solo nelle sue conferenze, mentre il pathos di Rádl era politico, pubblico), tuttavia nei momenti decisivi della vita della nazione per tre volte Jan Patočka si assunse il ruolo di Rádl e per tre volte rivestì anche l’abito donchisciottesco di Rádl a cui da qualche parte egli stesso fa riferimento. In questo ruolo Patočka mi fu sempre molto vicino; e in questo si può vedere come io sia stato condizionato da Rádl. Ma l’importanza di Patočka è soprattutto altrove.
La filosofia cèca della prima metà del ventesimo secolo aveva un grosso difetto: non era all’altezza dei suoi autentici compiti. Con questo non voglio dire che in essa non ci fossero delle idee profonde, che non avesse un orientamento oppure fosse orientata male, che non dimostrasse alcuna peculiarità degna di nota e così via. Niente di tutto questo: la filosofia cèca faceva pensare piuttosto a un rispettabile serbatoio di progetti che però non ebbero mai un compimento e una realizzazione filosofica. Tutt’al più potevano ispirare le pubblicazioni filosofiche più importanti, ma non potevano diventare una base filosofica. Quando terminai la scuola media la logica simbolica (matematica) divenne il mio interesse principale. Non ne parlai molto con nessuno, però presupponevo che la strada più indicata verso di essa potesse essere la matematica. Mi accorsi presto che si trattava di un grosso errore e dalle scienze naturali passai alla facoltà di filosofia, dove a quall’epoca tutti gli insegnanti impostavano le loro conferenze e i loro seminari sulla problematica logica. Fui fortemente deluso da Kolman e da Rieger, Kozák mi interessò, ma decisivo per me fu Patočka, al cui preseminario si leggevano i saggi di logica di Husserl. Patočka era l’unico in cui riconoscessimo un metodo filosofico e in particolare quello che si può definire un lavoro filosofico a livello attuale. J. B. Kozák mi era molto più vicino per l’orientamento ideologico e tutta la struttura delle posizioni filosofiche, ma purtroppo dopo la guerra egli si accontentò di fare solo commenti e volgarizzazioni, anche se più di una volta acuti e convincenti. Ma solo Patočka propose a noi tutti una materia alta. Se oggi la filosofia cèca può reggere a livello mondiale, lo dobbiamo principalmente e forse unicamente a Patočka. Solo in lui abbiamo potuto riscontrare quel metodo speculativo di cui la filosofia non può fare a meno.
Patočka per tutta la sua struttura spirituale e ideale era un interprete, non un sistematico. Le sue lezioni negli anni del dopoguerra sulla filosofia greca (arrivò fino ad Aristotele poi gli fu tolto il diritto di far lezione) furono per noi studenti una rivelazione. Patočka aveva la stupenda, straordinaria dote di riuscire a penetrare nel mondo ideale di un altro filosofo fino ad identificarsi con esso: pensava con lui, alla sua maniera addirittura per lui e oltre lui, riusciva a pensarlo senza distruggerne l’integrità, a renderlo attuale, ma non come ricettacolo di idee astratte ma come personalità viva. Era una dote che io non riuscii mai ad avere e che ammirai sempre in lui, forse più di ogni altra cosa. In questo c’era un progetto. Poco prima della guerra Patočka aveva scritto che da noi c’era e c’è scarso interesse per l’antico nelle sue manifestazioni più grandi, che «la vita cèca non ha trovato a sufficenza un suo rapporto con la cultura greca e in particolare e con la filosofia greca, che è il fondamento del nostro pensiero europeo». E subito dopo la guerra lavorò, come forse nessuno altro da noi, per suscitare fra gli insegnanti e soprattutto fra gli studenti un interesse più fervido per la filosofia greca antica.
Patočka non circoscrisse il suo genio di interprete solo all’antica Grecia. Per la situazione del pensiero cèco postbellico, da cui erano stati esclusi per decenni tutti i pensatori che avevano idee diverse da quelle marxiste, e quindi per la situazione del nostro pensiero marxista, Patočka fece una grossa parte di lavoro con le sue interpretazioni e anche con le sue traduzioni davvero invidiabili di Hegel. Senza Hegel il marxismo equivale all’engelsismo, vale a dire una particolare varietà di positivismo, cioè di afilosofia. Il marxismo si è sviluppato in un modo particolare, tanto che il vero Marx filosofo a poco a poco non ebbe più a che fare con esso. Rinnovando l’interesse per Hegel, Patočka contribuì in misura straordinaria a far riscoprire ai nostri marxisti il vero Marx e, di conseguenza, anche a trovare, nel nuovo e più profondo contatto con Marx filosofo, le interpretazioni e la rampa di lancio necessarie per attività filosofiche nuove e di rilevanza mondiale. La franchezza e la disponibilità di Patočka a questo tipo di aiuto rivelarono a molti giovani marxisti, cioè gli oppositori filosofici di Patočka, alcuni suoi aspetti umani a cui essi non potevano rispondere se non con la simpatia e l’amicizia. È quindi tanto più incredibile che ci sia stato chi non ha provato vergogna a gettargli contro menzogne infamanti anche negli ultimi suoi giorni e non si è fermato neppure dopo la sua morte.
Un compito estremamente difficile nella nostra situazione filosofica del dopoguerra era quello di mettere in contatto la tradizione nazionale con quel ramo della filosofia mondiale in cui Patočka stesso era saldamente e profondamente radicato fin dall’epoca dei suoi studi, ma per cui nel nostro paese non c’era molto interesse. Patočka si assunse questo compito e per lunghi anni lavorò ad aprire, rendere agibili e mediare le strade per accogliere il modo di pensare fenomenologico, in particolare nella sua forma heideggeriana, che sotto certi aspetti (e in certe reinterpretazioni) appariva ai pensatori marxisti come la più attraente e la più ricca di prospettive. Un paradosso apparente era quello dell’influsso del pensiero cristiano, sia protestante che cattolico, attraverso gli stessi modi di procedere del pensiero e gli stessi metodi di mediazione. Di questo però devo parlare più dettagliatamente: e devo ricordare un altro pensatore cèco della generazione più anziana: Hromádka.
La posizione di J. L. Hromádka, molto discussa e spesso problematica, rappresentò nella vita cèca del secondo dopoguerra qualcosa di grandioso: Hromádka aprì e fino ai suoi ultimi giorni tenne aperto uno spazio per i cittadini con idee di sinistra (soprattutto cristiani, ma talvolta si vide che era una strada praticabile anche per chi non aveva principi cristiani), che non erano marxisti, né volevano far finta di esserlo, che difendevano la propria identità e intendevano crescere a modo loro, senza però cercare scontri polemici con marxisti e comunisti. Per molta gente dalle vedute un po’ ristrette si trattò solo di una forma più raffinata di collaborazione. A Hromádka però interessava il dialogo sulle questioni che riguardavano l’impostazione più profonda della vita. A Hromádka si può rimproverare qualcosa e noi lo rimproveravamo, talvolta forse con durezza, senza tatto. Hromádka ci ricordava sempre che noi non dobbiamo lasciarci ingannare dagli svariati errori del nuovo potere comunista, che dobbiamo distinguere fra quelli e la cosa essenziale che necessariamente, incessantemente e giustamente si trasforma. Noi, più giovani, che sapevamo poco dei processi sovietici degli anni venti e trenta, eravamo ancora propensi negli anni cinquanta a vedere nei processi a Slanský e anche a Horák o ai rappresentanti cattolici un temporaneo furore rivoluzionario. Ma già non eravamo più disposti a mandar giù facilmente l’Ungheria (e la Polonia) e forse la prima volta che prendemmo consapevolmente e sostanzialmente le distanze da Hromádka fu proprio allora, quando egli dopo un viaggio di alcuni giorni in Ungheria, venne brevemente da Jirchář e cercò di ripeterci con convinzione quello che aveva udito da Peter a Budapest. Da allora noi non seguimmo più Hromádka, ma fummo sempre di qualche passo avanti a lui. Nel ‘68 Hromádka ebbe la possibilità di recuperare, eppure, benché sconvolto dal 21 agosto e stanco come forse mai prima, concluse il suo modo di vita dignitosamente. Nei suoi ultimi testi, però si può scorgere delusione e rassegnazione, la sensazione che ciò a cui egli aveva donato negli anni del dopoguerra buona parte delle sue forze e del suo lavoro fosse crollato.
Mi ricordo che io stesso, nell’ultima settimana del febbraio 1948, rimasi turbato e indignato per il modo con cui i comunisti si impadronirono (naturalmente dopo una precedente preparazione politica e organizzativa) del potere nello stato e soprattutto dal modo con cui trattarono i loro avversari politici. Mi sembrava anche incredibile l’inettitudine degli altri e la costernazione e addirittura lo sgomento della maggioranza della popolazione. All’improvviso mi sentii psicologicamente nella situazione di chi protesta e rifiuta. in quella circostanza Hromádka rappresentò per me un’autentica via d’uscita. Per anni si vide che coloro che rifiutavano decisamente la nuova realtà erano condannati all’inattività, al silenzio, alla nullità e alla totale assenza di prospettiva. Qualche volta, nelle conversazioni con Patočka si parlò di queste cose; la sua esperienza era abbastanza simile, anche se era di vent’anni più anziano e conosceva di più la situazione anteguerra. Hromádka creò uno spazio in cui anche Patočka trovò la possibilità di mettere i piedi sul terreno solido (erano i tempi in cui in lui un certo senso di colpa intellettuale per non aver tentato prima di trovare la strada verso gli operai, il proletariato, si sposava alla commozione nel vedere come si curava di lui invece lo stato operaio, quando ebbe le cure termali – tipico caso più volte descritto di introiezione di una pressione esterna molto grande e prolungata; Hromádka invece indicò una strada del tutto diversa); Hromádka quindi realizzò un ambito, Patočka preparò con molta maggiore intensità e difese di persona la costruzione graduale di questo ambito. Hromádka ebbe il merito enorme di realizzare una serie di condizioni per la nascita di un dialogo reale, ma personalmente si tenne entro certi limiti oltre i quali non andò mai; Patočka fece assegnamento su questa base, quindi partì e varcò il limite. È sintomatico che Hromádka abbia condotto il «dialogo» soprattutto con il circolo intorno a Machovec e non abbia mai tentato un dialogo con gli esponenti della linea neomarxista, che andava ai fondamenti filosofici di Karl Marx stesso e voleva, partendo da Marx, fare un passo filosofico in avanti (l’esponente principale di questa linea è Karel Kosík). Patočka invece instaurò un dialogo più sostanziale proprio con i filosofi marxisti della cerchia di Kosík. È probabile che su questo in una certa misura abbia inciso anche la scelta dell’altra parte (furono cioè proprio questi giovani di talento che si diedero da fare per avere – ancora sotto la guida di Rieger – Patočka all’Istituto di filosofia, seppure come operatore del settore editoriale, dato che come non marxista non poteva essere un operatore scientifico). In ogni caso si trattò di una cosa di importanza fondamentale, come del resto l’avvenire dimostrerà.
Jan Patočka era un filosofo abbastanza lontano dalla politica e quindi non propriamente cèco. Tutti i grandi esponenti del pensiero cèco furono sensibilmente impegnati in politica, a volte forse anche un po’ troppo. Patočka non fu quindi vicino alla politica e arrivò ad essa con difficoltà: in questo campo l’influsso del suo maestro fu molto forte. Si adeguò alla tradizione filosofica cèca solo con il passare degli anni e in particolare sotto l’effetto dei mutamenti politici e delle catastrofi piccole e grandi, dei fallimenti nazionali o solo personali, o delle minacce. E cominciò ad apprezzarla sempre di più. Ma non solo questo: Patočka riuscí a scoprire una robusta vena filosofica là dove nessuno o al massimo qualcuno aveva appena cercato. Il risultato del suo forzato allontanamento dal lavoro filosofico negli anni cinquanta fu la scoperta di Comenio come filosofo di importanza mondiale, rappresentante l’alternativa filosofica a Descartes (mentre fino ad allora Comenio era stato visto soprattutto come pedagogo, «il maestro dei popoli»). Riscoprì perciò anche per sé e per gli altri Masaryk e Rádl, in parte già dopo il crollo della prima repubblica ma soprattutto negli anni sessanta e settanta. La lotta condotta da Patočka negli ultimi tre mesi della sua vita lo colloca definitivamente in questa che è la linea più fondamentale, più profonda e finora più ricca di prospettive del pensiero cèco dell’epoca moderna contrassegnata dai nomi di Palacký, Havlíček, Masaryk e Rádl.
Già prima della guerra, quando sintetizzò la sua idea sul posto della cultura cèca, Patočka indicò con spirito critico i gravi difetti della nostra vita intellettuale e spirituale e di tutta la cultura in genere. Espresse comunque la convinzione che «nello sviluppo della cultura cèca futura, la filosofia avrà una forte incidenza come è già accaduto più volte nei momenti decisivi della nostra storia moderna»; è necessario concentrarsi sui grandi problemi «che non si possono enumerare attraverso la meccanica statistica; a questo dobbiamo arrivare, se nella nostra cultura dobbiamo abbandonare lo stadio del mero meccanicismo scolastico e dobbiamo imparare a pronunciare la parola che l’uomo colto dovunque chiederà». E quando tentò di indicare l’urgenza di questo compito, Patočka concluse: «Poche cose mi sembrano così urgenti come quella di riportare non il popolo ma l’intellighenzia cèca all’umiltà e alla modestia e di tentare di ricordarle che esiste il fatto della coscienza».
Penso che Patočka abbia nuovamente ricordato all’intellighenzia cèca questo fatto della coscienza proprio attraverso l’impegno totale dei suoi ultimi giorni e attraverso la sua morte. La morte di Patočka non ci insegna però solo una dignitosa rassegnazione, ma è piuttosto un appello; noi non proviamo dolore e delusione, ma è come se ricevessimo nelle mani una fiaccola; con Patočka non crolla un rudere di tempi remoti: la sua morte è invece come il sigillo della nostra decisione di avviarci verso un futuro aperto. Quando parlai con lui per l’ultima volta, insieme a mia moglie e a un amico, egli disse a un certo punto che la lotta per i diritti dell’uomo che noi abbiamo intrapreso non è una semplice battaglia, ma una guerra di cui chissà se vedremo la fine. Lui non è arrivato a vederne la fine, ma ha intravisto l’unica strada possibile che porta a giorni migliori: «L’arrendevolezza non serve a migliorare, ma solo a peggiorare la situazione». «Ci sono cose per le quali vale la pena soffrire».
Praga, 24 marzo 1977.