- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, str. 79–87
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- Dopis příteli č. 8
Caro amico,
mi rimproveri di aver toccato il tema della rivoluzione ma di non aver detto niente in modo specifico. Riconosco che la parola rivoluzione non si trova che una sola volta in una mia lettera (lettera n. 6), ma sono del parere che vi erano state dette tutte le cose sostanziali. Tuttavia colgo volentieri l’occasione ed indico espressamente la mia idea.
L’insistenza sullo spirito rivoluzionario e l’estasi della rivoluzione sono un residuo del romanticismo politico. Tratto caratteristico del romanticismo è una particolare esuberanza che nei suoi fondamenti è molto più antica ed è radicata molto più in profondità nell’intera tradizione europea. Già i più antichi pensatori greci avevano elaborato una trasformazione radicale nel modo fino allora seguito di intendere il mondo, cioè il cosiddetto oggettivismo, altrimenti detto pensiero oggettivo. L’uomo rappresenta l’acme della lunga evoluzione degli organismi viventi ed è profondamente radicato nella storia di ogni vivente ma anche nella biosfera attuale. L’uomo e l’umanità possono esistere e vivere solo in mezzo ad altri esseri viventi. L’uomo dipende molto più dagli altri organismi che non dal mondo inorganico; la sua dipendenza dalla natura inanimata gli è sempre stata mediata, non doveva affrontarla direttamente. Questa realtà muta all’improvviso solo negli ultimi tempi, e muta come conseguenza remota della tradizione del pensiero oggettivo e del rapporto oggettivo con la realtà e il mondo in genere, instaurata due millenni e mezzo fa. L’uomo a furia di convertire tutto in cosa, materia, oggetto (in senso metafisico) deforma la realtà, la disinterpreta, la falsifica, la mistifica. In breve: le fa violenza. Ma il romanticismo non si limita a una violenza inconsapevole, involontaria, prova gusto nella violenza e nelle soluzioni violente, crede solo nelle soluzioni violente, nella violenza ripone tutte le proprie speranze ed è profondamente convinto che solo con mezzi violenti è possibile raggiungere la perfezione desiderata, il bello, la giustizia, il bene, la pace. In realtà ottiene esattamente il contrario; la presentazione di obiettivi belli e nobili, ha solo il compito di ottundere sé e gli altri, è un ingano, una frode, una menzogna: un orpello ideologico insomma. In tutto questo il romanticismo rappresenta l’ultima grande rivolta contro il legame organico dell’uomo con la biosfera, con la natura, con il mondo in genere.
Le più eminenti personalità della filosofia europea del secolo scorso sono proprio i figli di questo movimento, come le grandi personalità della politica mondiale. Anche il nostro mondo di oggi è in misura notevole prodotto e frutto di questo errore storico, della sbandata di pensiero e di vita dell’uomo europeo. Bisogna avvertire subito che la nostra storia nazionale fino a poco tempo fa registrava solo tracce piccole e limitate di questa prepotenza romantica o di questo romanticismo prepotente. Negli ultimi trent’anni il grande sforzo della propaganda si è focalizzato sulla esaltazione dello spirito rivoluzionario e della rivoluzione, ma io ho l’impressione che non abbia riscosso un grande successo e che in realtà con il suo lavoro abbia ottenuto soprattutto di far diventare lo spirito rivoluzionario un luogo comune. Un’autentica ondata di sentimenti rivoluzionari si può incontrare alla fine degli anni quaranta e forse ancora nei primi anni successivi; comunque la delusione arrivò ben presto e colpì proprio chi si era lasciato inebriare dal rivoluzionarismo. La carenza di significato per il rivoluzionarismo politico può essere considerata all’attivo della mentalità del popolo; essa è però legata a qualcosa che svaluta sensibilmente o almeno relativizza questo giudizio. Per poter distinguere questi due aspetti dobbiamo prendere in prestito alcuni termini e alcune formulazioni da Havlíček, il quale distingue fra radicalismo rivoluzionario e quella che si definisce «rivoluzione delle menti e dei cuori». (Il testo fondamentale in questo senso è l’articolo di Havlíček «Rivoluzione» che uscì in due puntate sullo «Slovan» il 30 gennaio e l’8 febbraio 1851).
Havlíček non è per principio contro la rivoluzione; dice piuttosto che ogni rivoluzione è una sciagura; però quando questa sciagura è inevitabile e serve ad aprire e rendere libera la strada per una felicità futura più grande, «allora ogni persona saggia deve sopportare con pazienza questo infortunio, nella speranza del bene che seguirà». La cosa di fondo è tuttavia un’altra: «la rivoluzione è solo un mezzo per liberarsi di un governo cattivo, odioso, ma non è di per se stessa un mezzo per fondare e mantenere un buon governo». Havlíček sa comunque che «raramente la libertà si costruisce senza la lotta e lo spargimento di sangue»; «l’esperienza di tutta la storia ci insegna che la libertà non si può acquistare percorrendo la strada della legge, ma solo quella della rivoluzione». Insomma: Havlíček è convinto che la rivoluzione in certi casi è indispensabile, ma che essa è capace solo di demolire, di annullare e di liquidare un regime insopportabile e un governo ripugnante. La rivoluzione però non sarà mai un metodo per costruire un regime migliore e scegliere un governo migliore. Perciò possiamo concludere che la rivoluzione ha sempre un valore temporaneo. La rivoluzione, cioè, non può mai vincere in pieno, perché nell’istante della sua vittoria cessa di essere una rivoluzione e si mette a costruire (e questo è strutturalmente altro rispetto alla distruzione e all’annientamento) oppure conserva la propria violenza e si serve di mezzi violenti per costruire il cosiddetto nuovo ordine, la società nuova e allora anche se ripete mille volte che rimane rivoluzione non vincerà più, ma anzi perderà a poco a poco tutto e seppellirà tutto.
Il movimento socialista mondiale fu segnato fin dall’inizio dall’esperienza traumatica della rivoluzione francese. Nel corso della rivoluzione francese si dimostrò per la prima volta con forza che i princìpi democratici coerentemente difesi portano ad una democratizzazione della società e dell’economia. Allora si vide che la borghesia aveva paura delle conseguenze di questi principi e temeva anche i princìpi stessi; quella volta la borghesia tradì i suoi ideali e annegò nel sangue coloro che difendevano una democrazia reale e coerente. Non cambia nulla che prendesse a pretesto i barbari metodi rivoluzionari a cui si era abbandonata la plebaglia con motivazioni che non avevano niente a che fare con i princìpi democratici. Marx, il più importante teorico e pratico del socialismo del secolo scorso, era convinto che bisognava portare a compimento proprio la rivoluzione francese fino alle ultime conseguenze, quindi anche sociali ed economiche. Perché questo fosse possibile occorreva prepararsi adeguatamente in modo che la rivoluzione successiva non potesse essere abbattuta. Questa fu la cosa principale di Marx intuita da Lenin: il pericolo più grande per la rivoluzione è l’antirivoluzione, la controrivoluzione. Il principiale obiettivo di lotta nel 1917 fu di impedire che si ripetesse il 1905, impedire cioè che la controrivoluzione potesse avere qualche chance. La costruzione della nuova società doveva cominciare in primo luogo togliendo tutto il potere dalle mani dei non rivoluzionari e dei controrivoluzionari, centralizzandolo e usandolo appieno per spaventare e per liquidare tutti i nemici reali e potenziali. La mancanza di fiducia nei rivoluzionari ebbe i suoi impressionanti frutti già nella rivoluzione francese; ma tutto questo fu superato dopo la caduta della Russia zarista, quando la rivoluzione volle rimanere rivoluzionaria fino alla «vittoria finale». La nuova società e il nuovo stato furono edificati, perché dovevano essere edificati. Ma si ebbero perdite enormi di ogni genere e catastrofi umane che superarono ogni previsione. Sembra che questa nuova esperienza di rivoluzione che l’umanità fece significhi un nuovo e forse ancor più grave trauma per tutti i futuri socialisti e i programmi socialisti. Comunque deve soprattutto essere sottoposta ad un’analisi più radicale. Innanzitutto la rivoluzione che elimina tutti gli ostacoli e tutti i nemici reali e potenziali e suppone così di avere eliminato la controrivoluzione, sembra accettare da questa alcuni suoi ruoli (alcune ſunzioni) e finisce per diventare il principale nemico di se stessa. La storia ha dimostrato che nessuna controrivoluzione può interrompere l’evoluzione sociale, ma ha anche dimostrato che nessuna rivoluzione può rappresentare un duraturo passo in avanti. E quel che è più tragico: tutto sembra indicare che dalla rivoluzione molto difficilmente si torna ad una vita sociale organica, normale, che la conseguenza di ogni grande e sanguinosa rivoluzione sono decenni di ristagno sociale e politico; il fenomeno che accompagna questo ristagno è la sterilità della vita culturale ufficiale. Mentre prima della rivoluzione lo spirito rivoluzionario è uno degli stimoli principali della creatività artistica e intellettuale e uno dei fondamenti della sua carica ideale, dopo la vittoria della rivoluzione diventa una zavorra, un inciampo, una formalità, un luogo comune che rovina e corrompe all’interno ogni opera d’arte o di pensiero.
Tutto questo dimostra che Havlíček aveva ragione quando distingueva la rivoluzione con le armi in mano da quella delle menti e dei cuori. Anche se non mancano le eccezioni, si può dire che quasi tutta la grande arte e tutta la grande filosofia erano vicine alla rivoluzione, avevano qualcosa di rivoluzionario in sé. Lo spirito rivoluzionario come apertura al futuro, ricerca di nuove strade, prontezza nel trovare soluzioni inaspettate, come coraggio individuale di liberarsi dalle abitudini e di porsi contro la routine generale e le certezze ordinarie prive però di prospettive: un simile spirito rivoluzionario vuole menti aperte, sentimenti puri, serietà di vita e carattere libero. Ma appena un pensiero nuovo, un’idea magari ottima, una visione originariamente pura si uniscono con il potere, la violenza, la repressione, non solo perdono la propria forza di attrazione e la capacità di convinzione, ma anche e soprattutto perdono la propria ragione e la propria verità, perdono le loro personalità migliori e acquistano lunghe file di fans. Ciò che deforma e corrompe l’autentico e puro spirito rivoluzionario è proprio la sua unione con il potere, in particolare con il potere ufficiale, in particolare con il monopolio di potere dello stato, a cui un’efficace resistenza civile non riesce ad impedire di violare le leggi e di intromettersi nella vita individuale, sociale, culturale, per la quale tutti gli strumenti dello stato devono essere un aiuto e un mezzo e non un fine e un obiettivo.
Havlíček aveva ragione quando diceva che i cattivi governi di solito non escono di scena se non si fa ricorso alla violenza, se non si operano mutamenti rivoluzionari. Le rivoluzioni però portano sempre con sé qualcosa di tragico; più crudele è il governo, più grande è la ferocia con cui gestisce il potere, tanto più tragiche sono le conseguenze della rivoluzione contro di esso. Sarebbe ingiusto scaricare la colpa sui rivoluzionari. Ma un giudizio più equo non sminuisce affatto gli orrori che si abbattono sull’intera società. Quindi le rivoluzioni sono accettabili solo come ultima ratio, quando tutto il resto non va, è debole. Ma non sono e non saranno mai da desiderare proprio perché rappresentano solo un ostacolo per la normalizzazione e la vita sociale. Gli uomini che hanno acquistato meriti nella rivoluzione (e questo è già uno dei casi migliori dato che a volte si tratta di uomini che hanno solo approfittato della rivoluzione, che l’hanno usata e continuano ad usarla solo per il proprio vantaggio e che fingono solo di avere uno spirito rivoluzionario) pensano di essersi guadagnati il diritto di guidare la società anche nei tempi di vita normale. In realtà i capi rivoluzionari vanno poco bene come autorità in tempo di pace, proprio come gli eroi di guerra e i generali veterani. I generali hanno per lo più la tendenza a fare dello stato una caserma; i rivoluzionari di solito sono una minaccia per la democrazia più dei reazionari abbattuti.
Lo spirito rivoluzionario e la rivoluzione sono un fenomeno relativo, un canovaccio per così dire; non esistono tratti caratteristici generali, avulsi dal contesto storico concreto. Per questo anche la rivoluzione può facilmente scadere nella controrivoluzione, senza che debba essere necessariamente abbattuta da nemici esterni. Ne sono una prova le numerose alleanze singolari che, a quanto pare, i governi e i movimenti rivoluzionari non combattono e non respingono affatto, anche quando i partner sono movimenti conservatori o addirittura controrivoluzionari. I mutamenti politici individuali e di gruppo, che spostano singoli o interi movimenti dall’estrema destra all’estrema sinistra o viceversa – e la casistica è ricchissima – dimostrano che i luoghi comuni rivoluzionari e il radicalismo rivoluzionario tanto più sono sradicati dalla storia e dal contesto quanto più sono una sindrome patologica che ricorre sempre e dovunque, indipendentemente dalle circostanze storiche. Questo spirito rivoluzionario «professionale», patologico, va isolato e curato in quanto è una minaccia per il normale andamento della vita sociale ed è in netta antitesi con valutazioni e considerazioni politiche serie che non sono e non possono essere fondate su complessi e risentimenti, ma sulla ragione e su motivazioni ragionate.
Come ho già detto, in confronto agli altri numerosi popoli, il nostro non è stato troppo contagiato dall’infezione della violenza rivoluzionaria, che, soprattutto, non è arrivata a logorare il modo di pensare della nazione. La maggioranza delle cattive esperienze non è venuta tanto dall’ossessione rivoluzionaria ma piuttosto dall’imitazione dei modelli stranieri. Ma quello che ci manca realmente, un po’ come il cacio sui maccheroni, è il coraggio della rivoluzione delle menti e dei cuori. L’uomo cèco è scettico e pessimista quando si tratta di questioni più generali e di programmi comuni che interessano tutta la società e tutta la nazione. La storia all’uomo cecoslovacco medio ha insegnato a cercare, soprattutto nei tempi difficili, delle soluzioni private. Questo è comprensibile anche se un po’ triste. Ma quello che fa ribrezzo è quando un intellettuale si mette la maschera del rivoluzionario, recita meccanicamente slogan rivoluzionari e fa a gara con i colleghi nel citare i modelli della rivoluzione al solo scopo di raggiungere la sua privata e al tempo stesso insipida «piccola soluzione cèca», che è conservatrice, ultraborghese da far piangere. Lo spirito rivoluzionario non può cioè organizzarsi e darsi una garanzia organizzativa. L’autentico spirito rivoluzionario ha carattere spirituale e non ha niente in comune con gli strumenti di potere e con la coartazione (e in genere neppure con le armi materiali). Lo spirito rivoluzionario entra dove vuole: ora c’è e un momento dopo non c’è più. Non è sottoposto a nessuna disposizione, le disposizioni dal di fuori, le conferenze, l’istruzione, la propaganda non servono a suscitarlo. Preoccupatevi dello spirito, non della lettera, preoccupatevi dell’intelligenza e non della disciplina, di argomenti che convincano, di una visione acuta delle cose e preoccupatevi meno dei dogmi, delle imposizioni, dei firmani, e lo spirito rivoluzionario vi sarà dato. Abbiamo più bisogno di istruzione, di informazione, di discussioni aperte, di esperimenti, di una assunzione di responsabilità libera e consapevole. Questa è la rivoluzione che ci è necessaria come il sole.
Praga, 31 marzo 1977.