- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, str. 209–217
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- Dopis příteli č. 21
Caro amico,
l’ultima volta ti avevo promesso alcuni esempi a dimostrazione di cosa intendo per applicazione delle libertà e dei diritti senza ricorrere a una critica della situazione, ma attraverso un lavoro al positivo. Non che la critica non sia necessaria, da noi ce n’è sempre molto poca, e per la maggior parte generica. Ce ne dovrebbe essere molta di più e anche più dettagliata, ma non si vive di sola critica. Bisogna fare qualcosa finché anche la critica migliore e più dettagliata non porti a una riforma completa e ben fatta. Nell’ambito delle iniziative civili bisogna intraprendere una serie di iniziative di autodifesa che siano in grado di risolvere i problemi più urgenti almeno in maniera temporanea, provvisoria. Anche qui comunque l’elemento decisivo sarà sempre il massimo rispetto delle leggi. L’obiettivo di queste iniziative a cui io penso non è di ottenere, nonostante la pesantezza delle circostanze, dei risultati, magari limitati, ma è quello di creare uno spazio per la libera creazione e la libera scelta delle opere artistiche, scientifiche, filosofiche e di altro tipo e in genere lo spazio per una vita libera, non condizionata intellettualmente e spiritualmente. Per il poeta, lo scrittore, lo scienziato, il pensatore, uno spazio simile equivale a ciò che la biosfera è per ogni organismo vivente.
Questa attività non è proprio agli inizi, molte iniziative sono già state intraprese. Nelle forme dell’autoeditoria hanno visto la luce ad esempio parecchie raccolte di poesie, numerose novelle, romanzi, libri di viaggi con fotografie, saggi filosofici, traduzioni, ecc. L’iniziativa più tenace, e quindi la più meritoria, è il cosiddetto «Petlice» (il catenaccio) in cui abbiamo avuto modo di leggere anche alcune opere davvero eccellenti. Ecco, in questa e in altre iniziative del genere bisogna insistere, soprattutto bisogna che esse crescano e si moltiplichino, che cessino di essere un’eccezione per diventare un’oasi di normalità in una situazione anomala, per cui alcuni dei nostri artisti e pensatori migliori non possono lavorare né nelle scuole né negli istituti, non possnono pubblicare, cioè non possono stampare, recitare, esporre, cantare in pubblico, e il loro nome non può neppure essere sussurrato. In una situazione del genere noi non facciamo neppure lontanamente quello che è nelle nostre forze e nelle nostre possibilità. Solo di rado e in circostanze straordinarie si allestiscono mostre di quadri (o di statue) in appartamenti o in atelier privati; rare anche le recite di nuove poesie o di altri testi.
Non è abituale registrare queste recite; esiste invece una serie di registrazioni molto belle di musica pop, anche se occorrerebbe moltiplicarne il numero. Quello che manca del tutto è una rivista alternativa che da un lato dia risalto nel modo più completo a quello che è a disposizione e dall’altro offra spazio anche ai critici d’arte, agli storici dell’arte, alle dispute ideologiche, alle polemiche. Non ho certo esaurito il campo: si potrebbe ancora aggiungere qualcosa. Ma non mi interessa essere esauriente, bensì accendere la fantasia, dare un’ispirazione. In questo campo vale e varrà ancora a lungo il principio: bisogna avere dell’inventiva, per quanto è possibile. In tutti i settori devono germogliare nuove idee e nessuna può sfuggire alla nostra attenzione, nessuna può andare perduta. Sotto questo riguardo viviamo in un’epoca in cui si pongono le basi dei giorni futuri, della vita culturale e spirituale di domani.
Un’altra questione di fondo ci impone di guardare ai giorni, ai mesi e agli anni futuri. Oggi non sappiamo quanto durerà ancora questa situazione di anormalità. Ma anche se fosse solo per due o tre anni (ma io penserei a un periodo molto più lungo), si tratta di una perdita grave soprattutto per i giovani che non possono accedere alle scuole superiori – talvolta è possibile accedervi solo a quattro anni dalla maturità, e quest’anno solo al secondo ricorso. Questo è già un certo successo e il sintomo di un passo avanti, di un certo miglioramento della situazione (non sappiamo se duraturo o momentaneo). A coloro che aspirano agli studi scientifici viene abbreviato o addirittura annullato il servizio militare perché viene considerato dannoso perdere due anni. Come considerare allora la perdita di quatto anni interi? Ci sono campi in cui l’autodifesa organizzata non può apportare rimedi, ma ve ne sono altri in cui questo è possibile. Questa autodifesa ha buone prospettive nella maggior parte delle discipline umane, inoltre essa è la logica conclusione in una situazione in cui sono decine e centinaia i professori, i docenti e gli assistenti che non possono far lezione, gli operatori scientifici privati della possibilità di lavorare negli istituti scientifici e spesso addirittura nel loro campo e in cui sono centinaia e migliaia i giovani che, nonostante le loro capacità, non sono ammessi alle scuole medie e a quelle superiori per «difetto» nella qualifica dei loro genitori. In una situazione del genere che cosa c’è di più logico che questi giovani si incontrino con coloro che hanno una competenza? Lo accennai già nella lettera alla fine di luglio. Questo naturalmente richiede non pochi sacrifici da entrambe le parti. Un professore universitario del genere, finché non è in pensione deve pure trovare di che vivere; così quando torna stanco dal lavoro, invece di riposarsi deve concentrarsi al massimo per spiegare la sua materia oppure per rispondere a domande; deve pensare a come fare le spiegazioni e a come comunicare l’essenziale; dovrà indicare i testi per uno studio più approfondito e suggerire come ottenere i massimi risultati studiando da soli. Dovrà inoltre tenersi sempre a disposizione per quando certi studenti si trovano in difficoltà e non sono in grado di andare avanti senza aiuto. Comunque la situazione dei giovani non è migliore. Anch’essi infatti dovranno lavorare per non essere tacciati di parassitismo e quindi saranno costretti a studiare nel loro tempo «libero». Anche se provvisoria e alquanto faticosa questa soluzione avrà valore. Anche qui sarà opportuno sfruttare la tecnica: le lezioni possono essere registrate e poi trascritte. Ottenuta l’autorizzazione, nascono dispense e nuovi testi di studio che saranno a disposizione anche di coloro che non hanno potuto essere presenti e che non possiedono un registratore per ascoltarsi le lezioni e le discussioni. Inoltre il contatto fra gli esperti più anziani e i giovani è importante anche per il lavoro scientifico autonomo: in fatti è provato che l’attenzione vivace dei giovani non ancora gravati dalla routine scientifica sprona anche lo scienziato più scaltrito a visioni e tentativi nuovi, estremamente produttivi.
In entrambi i casi citati si tratta dell’ambiente degli intellettuali. Sarebbe di sicuro illogico se ci dimenticassimo che i problemi e le difficoltà della nostra società non si limitano certo a questi ambiti. Ho già avuto occasione di dire che nel nostro paese in certi settori non si curano a sufficienza le condizioni di lavoro, la sicurezza del lavoro, la modernizzazione della produzione, ecc. Questo si ricollega al fatto che mancano gli stimoli economici necessari (ad esempio l’introduzione di nuove tecnologie oppure l’acquisto di nuovi macchinari risultano economicamente «svantaggiosi» perché il lavoro umano è «più a buon mercato»), ma altrove le lacune si manifestano nel lavoro delle organizzazioni sociali, in particolare nel movimento sindacale. Ma i difetti e le carenze non si limitano solo al processo del lavoro (questi li potremmo anche risolvere): i fenomeni negativi interessano anche la sfera extralavorativa. Un esempio può essere dato dalla costruzione degli appartamenti che negli ultimi anni ha visto ridotto al minimo l’intervento dello stato. In certi settori si è riusciti come Dio vuole a contenere i prezzi entro certi limiti: ma non nel settore dell’edilizia. Qui l’aumento dei prezzi è stato vertiginoso e quindi la costruzione di appartamenti da parte dello stato è stata notevolmente ridotta (c’è urgente bisogno di stanziamenti altrove) e le spese le devono pagare i giovani che non hanno dove abitare. Tutti sappiamo quali enormi sperequazioni sociali ci siano in questo campo. A me comunque non interessa criticare gli squilibri della politica della casa e neppure criticare le difficili condizioni di lavoro: quello che mi interessa è che cosa si può fare di positivo perché la situazione possa migliorare almeno temporaneamente e magari anche solo localmente. Poco dopo la guerra c’era vicino al confine un paese distrutto abitato per lo più da famiglie di emigranti (penso della Volinia – ma non sono del tutto sicuro). Questa gente non agì di testa propria, ma in stretta comunione, con una solidarietà davvero notevole. Non cominciarono a migliorare la propria situazione ciascuno per conto proprio, ma si misero insieme, misero in comune il denaro e le forze e insieme costruirono una casetta dopo l’altra fino a ridar vita a tutto il villaggio. Nel villaggio vivevano con loro anche due fratelli ciechi che avevano perso i genitori durante la guerra; anche a loro con il lavoro comune venne ricostruita la casa. Non è un esempio stimolante? Non si vivrebbe meglio se imparassimo a vivere, a lavorare e anche a passare il tempo libero insieme evitando di pensare ciascuno per sé? Questa solidarietà reciproca (pratica, effettiva, non limitata alle emozioni e alle dichiarazioni) non è qualcosa che contribuirebbe sensibilmente a creare uno spazio libero senza ingerenze indesiderate? Questo non sarebbe utile per tutti? Solo chi ha attraversato momenti difficili e ha sperimentato l’aiuto solidale degli altri può valutare quale sarebbe questo retroterra nei momenti brevi o lunghi di difficoltà e di minaccia.
La crisi della società moderna affonda le radici nella sua atomizzazione, cioè nell’isolamento del singolo e della cosiddetta famiglia nucleare. In tutte le circostanze noi dobbiamo introdurre nella vita rapporti nuovi che garantiscano che il singolo e la famiglia «piccola» saranno costantemente (anche se in maniera mutevole) «avvolti» da una società più vasta, in cui avranno il loro retroterra e in cui insieme costruiranno il retroterra per altri. Il prodotto di queste nuove strutture sociali sarebbe qualcosa di diverso, di straordinariamente importante. Tutti sappiamo e vediamo che la società socialista, nonostante le sue dichiarazioni, non ha creato un nuovo stile di vita, ma ha anzi assunto e fatto propri le abitudini, le forme e gli ideali piccolo-borghesi. Una cosa simile non si può pianificare e decretare: nasce in maniera organica e dà l’idea dei reali rapporti esistenti nella società, funge cioè da segnale, da sintomo. Non vale la pena di specificare dettagliatamente i singoli caratteri di questo «provincialismo socialista» tanto più assurdo quanto meno è funzionale e operante. (Basta un esempio solo a cui potrebbero seguirne decine di altri. Molte persone, molte famiglie hanno un’auto propria, alcune famiglie addirittura più di una. Comunque la maggior parte di queste auto circola per i week-end e neppure in tutti. Avere un’auto propria è indice di prestigio sociale e non di esigenze pratiche). Ma un nuovo stile di vita non lo possono creare uomini abituati ad adattarsi, a scendere ad accomodamenti e compromessi, ma solo uomini capaci e decisi a radicare e a fondare la loro vita non su un terreno effimero, ma nel profondo. Un nuovo stile di vita può nascere solo come esito di una vita ben ancorata e saldamente orientata.
Nella sua più profonda essenza il socialismo non può essere definito economicamente e tanto meno politicamente. Socialista è quella società in cui l’uomo si rapporta agli altri uomini come a suoi amici, compagni (nella quale cioè vale il homo homini socius). Questo non è in primo luogo un problema di organizzazione sociale ma un problema di rapporto attuale e concreto del singolo uomo con singoli uomini. E qui vale il principio che miei amici devono divenire prima di tutto gli uomini che soffrono, i deboli, i maltrattati, quelli che patiscono, che sono ingiustamente condannati e discriminati, che sono malati, vecchi oppure che sono sbattuti ai margini della società, a dirla più chiaramente: è di questi uomini che io devo diventare amico, compagno. Trattare «amichevolmente» il direttore o il segretario non ha niente di socialista, questo succede in tutte le società. Ma difendere un uomo diffamato, calunniato, ingannato, umiliato contro il direttore oppure contro il segretario, o almeno senza tener conto di come l’uno o l’altro valuteranno la cosa, questo è davvero giusto e socialista, cioè, da compagni, umano insomma. Di occasioni del genere ne abbiamo ogni giorno intorno a noi. Bisogna solo che questi altri contino per noi al punto che noi ci complichiamo un po’ la vita con loro. Se impareremo a comportarci con gli altri in modo da aiutare loro e non solo noi, in modo da migliorare non solo la nostra situazione ma anche la loro, allora la nostra vita troverà la direzione giusta e la qualità giusta. Forse queste righe ti potranno sembrare qualche volta un po’ moraliste, censorie. Ma se consideri bene tutto, ti accorgerai che da nulla sono più lontano che dal fare il moralista. Questa è la cosa più pratica nella vita dell’uomo; e questa è la strada più praticabile verso una società in cui si possa vivere da uomini. E basta davvero poco: aprire gli occhi e vedere la miseria umana e fare tutto quanto è in nostro potere contro di essa. E non lasciarsi sedurre da nessuna ideologia e da nessuna frase, neppure da quelle che sembrano affascinanti.
Infine vorrei dirti ancora che ho saputo che hai sottoscritto Charta 77. Non so che cosa ti abbia spinto a non dirmi niente di questo. Forse perché circa sei mesi fa io respinsi la tua richiesta? Ti dispiace di non essere stato fra i primi? Hai l’impressione di essere un ritardatario? Sarebbe un errore. Per quello di cui si tratta in Charta 77 non contano le firme, soprattutto non conta solo la firma, neppure la firma al primo posto. Ci si può comportare e vivere nello spirito di Charta 77 anche senza averla firmata. E si può firmarla e poi con il proprio comportamento abbandonarla e annullarla. L’obiettivo di Charta 77 non è di raccogliere il maggior numero di firme, ma di persuadere il maggior numero di persone a comportarsi, nei confronti dello stato, da cittadini liberi, coraggiosi; a comportarsi verso i propri concittadini come amici, compagni. In primo luogo verso quei concittadini che sono calunniati, diffamati, accusati e condannati ingiustamente, perseguitati e discriminati, nevrotizzati e provocati, offesi e umiliati. Questi concittadini possono essere anche i firmatari di Charta 77. Tuttavia sono gli altri ad essere in numero maggiore. Noi li dobbiamo sollevare e non dobbiamo permettere che siano soli con le loro difficoltà. I diritti umani non sono cioè un loro corredo naturale, ma noi e gli altri abbiamo il dovere di dimostrare con il nostro comportamento e le nostre iniziative che per noi sono uomini, nostri amici, nostri compagni, che noi non cancelleremo mai questi diritti, anche se ciò può comportare per noi qualche rischio.
Praga, 1 settembre 1977.