- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 9–12
Nota di edizione
Le Lettere a un amico di Ladislav Hejdánek (di formazione filosofo, di mestiere manovale fuochista) non sono in nessun caso un epistolario. Sono piuttosto il contributo – originale nella forma e nel contenuto – di un uomo di pensiero e cristiano alla comprensione dei valori e dei motivi, dei limiti e della crisi del movimento costituitosi in Cecoslovacchia nel gennaio del 1977 e diventato immediatamente noto con il nome di Charta 77. Il destinatario non è immaginario, malgrado la genericità del nome; ma in realtà amico è per Hejdánek ogni firmatario di Charta 77, con i suoi ideali, le sue convinzioni, le sue delusioni, tanto è vero che nel novembre 1977, pochi mesi dopo la drammatica scomparsa di uno dei primi portavoce di Charta 77, il filosofo Jan Patočka, toccò al filosofo Hejdánek il compito di succedergli. Charta 77 aveva evidentemente bisogno di una guida che a un’integra coscienza morale associasse l’attenta capacità di riflessione, per condurre il movimento tra gli scogli della repressione, oltre le incertezze e le inevitabili defezioni. Attraverso le Lettere, che erano circolate negli ambienti di Charta 77, Hejdánek aveva guadagnato l’autorevolezza necessaria per potere affiancare Jiří Hájek nel ruolo di portavoce del movimento: non a caso, la datazione dell’ultima lettera è antecedente di circa tre mesi all’uscita del documento n. 13 di Charta 77, che presenta per la prima volta come portavoce Jiří Hájek, Marta Kubišová e Ladislav Hejdánek.
Hejdánek è un cristiano, membro attivo della Chiesa evangelica dei Fratelli cèchi (la più importante confessione protestante esistente in Cecoslovacchia), e come cristiano è costretto ad interrogarsi sui comunisti (sulla possibilità di rapporti tra cristiani e comunisti) e sul socialismo (sulla possibilità di un socialismo vero, senza menzogna), e risponde più con il candore della colomba che con l’astuzia del serpente di cui parla il vangelo. Così come cerca a tutti i costi nei comunisti uno spirito di vera umanità, altrettanto cerca a testa in giù un argomento in più per il socialismo. Alla fine non gli resta che la fame e sete della giustizia, la sincerità dell’anelito consacrata dal Discorso della Montagna.
La riflessione di Hejdánek si appoggia su alcuni principi che costituiscono la struttura del suo pensiero. Non si tratta di principi teorici, dei fondamenti di un’ideologia, ma delle norme di una saggezza che ha la sua origine nell’amore alla verità.
1) Nella lettera n. 6, Hejdánek stabilisce l’equazione secondo cui «quanto più si impone la valutazione iperpolitica di tutta l’attività umana e civile, tanto più massiva diventa la apoliticità di fatto dei cittadini e la simulazione puramente rituale del cosiddetto modo «giusto» (cioè quello reclamizzato dalla propaganda ufficiale) di fare politica». Ciò suona come una sentenza di condanna verso quella società che ha preteso di circoscrivere ogni idea, ogni desiderio, ogni speranza dell’uomo entro categorie politiche, in riferimento alle quali persegue ogni tentativo dei suoi membri di vivere in conformità a tali idee, desideri, speranze. Non solo: lo sviluppo dell’equazione delinea nitidamente di conseguenza il metodo di una «politica non politica» – scevra peraltro di qualsiasi accento qualunquista o individualista – che si fonda sulla precedenza della dimensione culturale su quella politica in senso stretto.
2) A questo è strettamente connesso un altro ordine di considerazioni attraverso cui l’autore dichiara il suo scetticismo «verso tutti i tentativi di dilatare e approfondire la libertà dell’uomo semplicemente ricorrendo a disposizioni e pressioni di potere». Tale scetticismo parrà certamente incomprensibile alla concezione politica generalizzata, comune alla sinistra e alla destra occidentali, per almeno due motivi.
Il primo è che la prassi politica in occidente (ma non solo in occidente) soggiace, dalla rivoluzione francese in poi, alla sua mitizzazione, secondo cui non è possibile attuare un mutamento dei rapporti sociali se non attraverso un radicale cambio della guardia ai vertici del potere (vedi le riflessioni sul rivoluzionarismo politico svolte nella lettera n. 8). Il secondo, che riguarda in particolare la situazione politica cecoslovacca, e che è direttamente conseguente al primo, è che si attende ormai una nuova «primavera» solo in seguito ad un cambiamento di strategia da parte dei vertici politici sovietici che si rifletterebbe nella riabilitazione e l’ascesa al potere di qualche personalità della primavera di Praga (speranza, questa, tacitamente coltivata da gran parte della sinistra europea per sgravio di coscienza).
3) Lo scetticismo di Hejdánek nei confronti del potere deriva lucidamente e rigorosamente dalla convinzione che lo stato in quanto tale non può arrogarsi il diritto di stabilire e concedere diritti e libertà – nella misura in cui fa questo già li viola – ma semplicemente deve riconoscerli e rispettarli, poiché l’esercizio di tali diritti e libertà fondamentali è un «atto sovrano» dell’individuo e delle comunità di individui.
4) Di fronte alla crescente centralizzazione del potere che amministra burocraticamente la libertà, non viene proposto un nuovo potere, che seguirebbe inevitabilmente la stessa strada, ma l’edificazione paziente della libertà attraverso una solidarietà operante che trovi le proprie motivazioni in se stessa, e non in una funzione contrappositiva al dominio.
5) L’attenzione concentrata esclusivamente sui problemi del potere e della struttura economica porta con sé una distrazione colpevole dal destino della persona. L’uomo che soggiace alla violenza che su di lui esercita un apparato amministrativo senza volto è ucciso una seconda volta nelle teorie che pretendono la consacrazione della sua vita al servizio della conquista del potere. In ambedue i casi, ciò che viene negato è la possibilità di vivere in conformità alla verità in uno sforzo – necessariamente frammentario – di edificazione di «una società in cui si possa vivere da uomini».
Così, di queste Lettere a un amico, non si può dire che siano il primo abbozzo di una nuova costruzione ideologica, e nemmeno il tentativo di definire una tattica politica per affrontare una situazione contingente di particolare oppressione. La lettera n. 21, che chiude idealmente il cerchio di queste conversazioni amicali, è anche una specie di bilancio dell’esperienza di Charta 77, di valutazione di alcune sue proposte per un lavoro al positivo, perché «non si vive di sola critica». Sarà opportuno cercare di intenderne il senso, per non lasciarle cadere sotto i colpi della critica politica raffinata, scaltra e disillusa.
L’obiettivo delle proposte non è, dichiaratamente, di strappare qualche vittoria nella guerra persa contro il potere, ma di impedire che il vincitore faccia tabula rasa della concezione che gli uomini hanno di sé, delle loro idee, della loro fede, per trasformarli in servitori ossequienti. E impedire significa qui più costruire che negare: costruire uno spazio di libertà espressiva, educativa, solidale – che si tratti di scrivere una poesia o costruire insieme una casa non importa. Costruire in un lavoro comune una possibilità di vita che sia l’annuncio di una società in cui tutti possano vivere da uomini. Il senso di tutto l’epistolario è in una stretta di mano, promessa reciproca di condivisione del destino dell’altro uomo e della società intera.