- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 59–67
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- Dopis příteli č. 6
Caro amico,
ho tardato un po’ con questa lettera, ma non è stata colpa mia. Perché non potessi partecipare ai funerali del mio maestro, il prof. Patočka, a titolo preventivo venni arrestato al seminario sulla soggettività umana e condotto nella Bartolomějská e poi tenuto per due giorni in una cella del carcere preventivo nella Konviktská. Penso che così mi sia stato permesso di dimostrare in modo del tutto degno il mio atteggiamento verso Jan Patočka; anche la nostra polizia politica ha dimostrato, per quanto stava nelle sue forze, come sia attuale e assolutamente necessaria la lotta per affermare i diritti umani fondamentali e per applicare le nostre leggi.
Ma non è di questo che oggi voglio parlare, mi occuperò piuttosto di qualcosa di più sostanziale. Sei rimasto stupito di quello che ti ho scritto nella mia prima lettera, che l’acquistare una cultura è più importante di un temporaneo coraggioso impegno politico, e nella tua ultima lettera mi ricordi una mia dichiarazione secondo cui la rivoluzione è un metodo politico molto discutibile, giustificabile solo in casi di estrema necessità. Le due cose a mio giudizio hanno una base comune, cioè la valutazione del posto della politica nella vita dell’uomo. Ed è proprio su questo che vorrei scriverti qualcosa.
Innanzitutto dobbiamo chiarire i concetti. Qualsiasi cosa facciamo, essa ha sempre un significato per la vita della comunità pubblica e poiché comunità pubblica in greco si dice polis si può dire che tutto ha un carattere politico. In questo senso lato tutto è politica: il modo come lavoro, come scrivo sul giornale, come faccio ricerca scientifica, come creo, come faccio filosofia, come mi interesso o non mi interesso di cultura, come mi preoccupo del modo di vita della gente intorno a me, delle loro idee, in breve come con la mia vita partecipo alla vita degli altri e alla vita dell’intera società. Esiste però anche una definizione più ristretta della politica: per cui si tratta di una sorta di specializzazione, prerogativa di determinati tecnici, che applica i dati di diverse discipline, la psicologia, la sociologia, ma anche la scienza giuridica, e persino l’estetica, l’assiologia, la filosofia, ecc., che in primo luogo è tesa a gestire, alimentare e migliorare certe indispensabili strutture, istituzioni e organizzazioni sociali. L’uomo cosiddetto non politico è, nella prima, più ampia accezione, anche politico; l’assenza di politica, oppure il non far politica, è un certo tipo di far politica e un tipo anche molto pericoloso se diventa un fenomeno generale. Dannoso e pericoloso è però anche il contrario, cioè l’iperpoliticismo, cioè la riduzione di tutte le attività e di tutte le funzioni individuali e sociali a un denominatore politico, il sottolineare in modo esagerato l’aspetto politico di tutto quanto l’uomo fa, vale a dire interpretare erroneamente il carattere politico dell’intera attività umana (o della non attività, del qualunquismo e del disinteresse) in senso lato, come un far politica in senso stretto, tecnico. Tra le due cose esiste comunque un legame sostanziale: quanto più si impone la valutazione iperpolitica di tutta l’attività umana e civile, tanto più massiva diventa la apoliticità di fatto dei cittadini e la simulazione puramente rituale del cosiddetto modo «giusto» (cioè quello reclamizzato dalla propaganda ufficiale), di fare politica. L’ipertrofia della politica tecnica è una nota caratteristica del mondo d’oggi; il suo prodotto e al tempo stesso il suo fondamento dominante e la sua radice è lo stato assoluto, cioè lo stato completamente sganciato dalla società e dalla vita sociale degli uomini, verso cui una persona non si sente né subordinata né responsabile, ma anzi cerca di organizzarsi e di prendere direttive secondo i propri bisogni e i propri criteri. (Ovviamente a questo si può arrivare solo in senso relativo, in una certa misura, ma questo non è determinante).
Come vedi, quasi senza volerlo, il tema si è spostato: siamo partiti dalla necessità di distinguere fra politica e fare politica in senso lato e in senso stretto, tecnico, e al tempo stesso abbiamo dimostrato che il sopravvalutare la politica in senso tecnico (e l’identificarla con la politica in senso lato) porta all’assolutizzazione del potere dello stato e che questo è un tema caratteristico nell’evoluzione dei moderni stati sovrani. Una delle ragioni per cui molti hanno smesso di credere nei programmi democratici è l’evidente fallimento dei tentativi di impedire con efficacia l’assolutizzazione antidemocratica dello stato. Per ogni stato moderno è assolutamente indispensabile incrementare continuamente il proprio potere sia all’interno che all’esterno. Neppure gli stati più grandi possono opporsi a questo andamento generale, isolarsi e proclamare la propria neutralità o il proprio disimpegno.
È per questo che nessuna dittatura, nessun impero assoluto esiterà ad attaccare un simile stato neutrale o non impegnato, se solo si sentirà abbastanza forte per vincerlo. Questo ha una sua logica immanente e in genere non dipende dalle persone che stanno a capo di quell’impero. Non c’è niente di più facile che sbarazzarsi al momento opportuno, per mezzo di una rivoluzione, di un putsch o in qualche altro modo, delle persone scomode e affidare la guida agli avvoltoi; nello stato in cui le strutture democratiche non funzionano, oppure costituiscono solo una verniciatura esteriore o un relitto del passato, non esistono difese e ostacoli contro questi cambiamenti improvvisi e violenti (Machtergreifung).
Pertanto non c’è da fare alcun affidamento su un simile partner internazionale, né da un punto di vista militare né economico.
Gli accordi internazionali possono, nel volgere di una notte, diventare carta straccia, mentre gli antagonisti tradizionali possono all’improvviso trasformarsi in alleati. Per questo ogni stato deve rafforzare al massimo le proprie forze militari e, poiché deve occuparsi anche del proprio «consolidamento» interno, deve tenere pronti anche i propri strumenti di pressione e di controllo interni, cioè soprattutto la polizia.
Quanto più diminuisce (per qualsiasi motivo) la lealtà dei cittadini tanto maggior deve essere l’impegno dei mezzi nell’esercito e nella polizia. E poiché anche nella politica degli stati la prevenzione è più importante della terapia, lo stato deve a poco a poco liquidare ogni potenziale focolaio di valutazioni politiche autonome (in senso lato, dato che il potere statale tende sempre a considerare come sfera di propria competenza tutta la sfera della politica in senso lato), di non conformazione e di eventuale critica alla politica dello stato. Per questo liquida alcune organizzazioni, ne riduce o neutralizza altre, altre ancora le controlla direttamente e le usa come «leve di propulsione». I non conformisti che ragionano con la propria testa e non si prestano a critiche li priva di tutti i mezzi di attività pubblica e alla fine li costringe al silenzio (in certi casi il silenzio è ottenuto con la condanna alla prigione o ai lavori forzati).
Torno a ripeterlo: si tratta di una tendenza di tutti gli stati moderni. Quanto essa possa andare avanti, fin dove possa arrivare o dove invece arrestarsi, non dipende dal regime statale o sociale ma dalla capacità di resistenza dei cittadini all’inganno e al terrore. In altri termini: la politica dei tecnici minaccia di dominare tutta la vita privata e sociale della popolazione e l’unica cosa che può impedirlo è la politica non tecnica, non statale, non ufficiale, cioè il far politica (il livello politico) del cittadino in quel senso lato; ma in che cosa effettivamente consiste questa «politica non politica»? Quali possibilità le restano quando la «politica del potere», la politica tecnica, la priva di tutti i mezzi di espressione e di affermazione in pubblico?
Facciamo un esempio che sia chiarificatore di tutto quello che abbiamo detto finora.
Credo che l’esempio più calzante possano essere le peripezie che hanno caratterizzato l’ultima lotta per l’affermazione dei diritti umani e civili nel nostro paese. Quasi ognuno di noi, nel corso degli interrogatori si è sentito fare la domanda: per chi parla? Vale a dire – chi l’ha incaricata, mandata, ed eventualmente chi l’ha pagata per questo?
Il «consolidamento» all’indomani del ‘68 si fondò sul soffocamento e la liquidazione di tutte le iniziative spontanee di «politica non politica» dei cittadini e sulla restaurazione e il rafforzamento della gestione e del controllo centralizzato di ogni organizzazione autorizzata dallo stato. Quindi non poteva esistere nessuna piattaforma di una società o di una organizzazione dove qualcosa di simile potesse essere discusso a fondo ed eventualmente votato.
Ogni tentativo del genere doveva concludersi con un fallimento, poiché sarebbe stato represso e neutralizzato fin dal suo inizio.
Perciò i firmatari di Charta 77 non hanno nessun incarico. Sono degli «intrusi» nel senso che non li ha delegati nessuno. Nel caso avessero l’abitudine anche solo di incontrarsi e votassero su qualsiasi cosa, si potrebbero considerare un gruppo antistatale poiché diventerebbero una associazione organizzata senza l’autorizzazione dello stato.
Vediamo così a livello fenomenico l’assolutizzazione dello stato: i cittadini non hanno il diritto di incontrarsi su un campo per il quale lo stato non abbia dato loro in precedenza l’autorizzazione e non devono esprimersi se lo stato non li ha autorizzati. Nonostante questo i chartisti esprimono le proprie critiche su numerose illegalità. In questo modo offenderebbero il loro paese e tradirebbero il loro popolo. Sono quindi incasellati nella categoria dei senza patria. Dunque i rappresentanti dello stato (e i loro agenti) parlano per la patria, per il popolo, per tutto il paese; l’assolutizzazione dello stato e la sua identificazione con il paese, con il popolo e con la patria è una cosa del tutto naturale. Gli uomini che guardano con preoccupazione ai fenomeni antidemocratici (e quindi al tempo stesso antisocialisti) all’interno della società e dello stato e che ritengono indispensabile alzare contro di essi la propria voce vengono zittiti e diffamati come elementi antisocialisti e servi dell’imperialismo, come venduti privi di midollo spinale, avventurieri internazionali, ecc. Tutto questo perché hanno levato una voce critica all’interno della società. Se poi qualcuno leva la voce all’estero, allora si intromette indebitamente negli affari interni del nostro stato. Così la critica non è ammessa, venga dall’interno o dall’esterno. Ancora quella assolutizzazione dello stato che non tollera nessuna norma e nessun giudizio, solo i propri.
E in questo confronto sono coinvolti a poco a poco sempre nuovi cittadini che hanno l’obbligo di partecipare a questa caccia alle streghe. Senza conoscerlo, devono condannare il testo della Charta. Gli artisti sono mobilitati in gran numero perché con il proprio nome difendano la patria, il popolo e tutta la cultura dall’attacco maligno dei chartisti «uomini senza patria», falliti miserabili, fantocci. La gente denuncia, gli artisti sottoscrivono (non tutti, naturalmente c’è anche qualche opposizione).
Questo significa: si gettano dietro le spalle la propria libertà civile, il proprio spontaneo «far politica non politico» e simulano una lealtà politica alzando le mani, oppure firmando (su questo poi dicono che era solo una firma di presenza oppure ne ridicolizzano l’importanza, «era il solito bla bla e quindi hanno firmato tutti, che senso avrebbe farsi notare? Son già due anni che in televisione non mi danno che un paio di particine» ecc.). Lo stato si accontenta di questo perché in genere quello che gli interessa non è l’intima convinzione dei cittadini (ma non può contare neppure sull’intima convinzione dei quadri dirigenti), ma solo un atto di approvazione della linea ufficiale. E così siamo al cuore della faccenda. La «politicità non politica» è indissolubilmente legata alla decisione personale, alla valutazione dei pro e dei contro, all’impegno per le decisioni giuste e contro le decisioni ingiuste, per la verità e contro la menzogna: e una cosa simile non è ben vista anche nel caso di un accordo con il corso ufficiale. Se il corso ufficiale dovrà per caso mutarsi in un altro, del tutto opposto, cosa succede con uomini convinti? Una convinzione reale non può cambiare a seconda del vento e delle circostanze; e così – secondo la versione ufficiale – dei socialisti e dei comunisti ortodossi diventano all’improvviso anticomunisti e uomini che odiano il socialismo, mentre degli spioni e dei traditori diventano eminenti funzionari.
Qualcuno può nutrire dubbi su dove è l’errore? Più sono potenti gli organi dello stato, più hanno bisogno di fantocci anziché di cittadini. E più sono gli uomini disposti a essere questi fantocci o almeno a fingere di esserlo, più potenti sono gli organi dello stato, più «assoluto» e più «sovrano» è lo stato.
Si può fare qualcosa contro questo? Penso di sì. In genere la situazione non è così fatale come sembra. Tutto dipende dalle persone, dai cittadini e dall’iniziativa civile. Dipende da noi. Ogni cittadino, ogni membro della società deve custodire gelosamente la sfera della propria libertà. La libertà in genere non consiste nel poter pensare o fare ciò che voglio, bisogna essere insensati e sciocchi per pensare così. L’essenza della libertà è data dall’emancipazione da ciò che mi opprime, che incombe su di me come un macigno, che mi conculca e mi costringe, una emancipazione che arriva fino a farmi scegliere la verità contro i miei interessi (e quelli del mio gruppo); e solo alla luce di questa si vede fino a qual punto i miei interessi erano giusti e fino a che punto sbagliati. Una emancipazione che arriva a farmi scegliere la giustizia contro ogni privilegio di cui potrei godere, e questo vuol dire soprattutto giustizia per quelli a cui è negata, per i deboli, gli umiliati, i disperati, oppure i discriminati e i perseguitati. Questa è la struttura della politica apolitica; decidere apertamente secondo la propria miglior coscienza – chiamare altri. Non si tratta in primo luogo del coraggio di una posizione, ma della disposizione a subordinare il proprio pensiero e la propria vita alla verità. Solženicyn intuì profondamente il fondamento di tutta la nostra decadenza spirituale e morale quando invitò al minimum civile e umano: non mentire, non partecipare alla menzogna. Ma val la pena aggiungere: non è affatto facile in nome della verità mettersi contro gli altri, contro la stampa ufficiale, contro «loro»: ma questo qualche volta riusciremo ancora a farlo. Ma mettersi dalla parte della verità contro se stessi? Smettere di mentirsi? Gettar via pregiudizi e illusioni? Essere capaci di guardare se stessi alla luce della verità? Senza tutti gli orpelli? Accettare di minimizzare come prive di importanza alcune iniziative proprie con cui in realtà tradisco verità, diritto, giustizia e quindi la mia terra, la mia società e quindi me stesso? Riconoscere che con questo tradimento mantengo sì una certa rispettabilità, uno standard di vita, ma che dietro la facciata c’è la mia umanità che crolla?
Per questo bisogna lottare per dare più spazio all’umanità dell’uomo. Per questo conduciamo la lotta per i diritti umani e civili, cioè per far valere l’idea che, nel suo contenuto principale e nella sua parte preponderante, la vita umana è radicata fuori dello stato e della sua competenza e che sfiora solo per la tangente lo stato e la sua politica. E lo stato che non vuole accettare questo e si intromette nel campo più peculiare dell’esistenza umana individuale e sociale è uno stato cattivo. Il qualunquismo e l’ignoranza politica servono solo ad aiutare questa ingerenza illegittima dello stato nella vita dell’uomo: invece un modo corretto di far politica, un vero senso civico, si affermano soprattutto e in massima parte nella sfera in cui gli organi dello stato e la politica dello stato non sanno che cosa dire.
Praga, 19 marzo 1977.