- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 89–97
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- Dopis příteli č. 9
Caro amico,
oggi vorrei ritornare su una delle questioni da te poste e che a suo tempo lasciai da parte, ma che è tuttavia di straordinaria importanza per valutare qualunque sistema sociale e qualunque regime. Si tratta della questione del diritto al lavoro. Nella nostra Costituzione questo diritto è sancito nell’art. 21, comma 1, in cui è anche sancito il diritto al salario per il lavoro svolto. Nel comma 2 si sottolinea che questi due diritti sono garantiti da tutto il sistema economico socialista, che non conosce crisi economiche né disoccupazione. Secondo il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, gli stati firmatari riconoscono il «diritto al lavoro che include per ogni individuo il diritto a guadagnarsi la vita con il proprio lavoro liberamente scelto o accettato» (art. 6, comma 1).
Così dunque le garanzie legislative nel nostro paese. E la realtà, la prassi? Purtroppo non ci sono a disposizione statistiche e quindi il semplice cittadino conosce le questioni relative ai tratti fondamentali della nostra vita sociale, economica (e culturale) solo per sentito dire, oppure se interessano la cerchia delle sue conoscenze o si imbatte nei singoli casi specifici. Potrei citare alcune decine di casi in cui ai cittadini è negato il diritto di svolgere il lavoro che si sono scelti o hanno accettato liberamente: studiosi di letteratura che fanno i guardiani, scrittori che lavorano alla recezione degli alberghi, musicologi che fanno gli sguatteri, giornalisti che lavorano come fuochisti, operatori scientifici che lavano le vetrine, parroci che fanno i magazzinieri o gli autisti di ambulanze, candidati in scienze che fanno gli straccivendoli, ecc.: di combinazioni ce ne sono molte altre non meno assurde. Non meno importante comunque di un rapido elenco è la descrizione dello svolgersi nel tempo dei singoli destini. Voglio ricordare almeno le mie esperienze personali in questo senso. Forse non è neppure il caso che mi scusi di questo: infatti la mia situazione la conosco meglio delle altre e penso che possa essere anche sufficentemente esplicativa.
Quando terminai gli studi (alla fine del 1952), cercai invano per alcuni mesi un’occupazione. Anche quando le cose lasciavano ben sperare, tutto andava in fumo quando io (e quindi l’impresa che mi doveva assumere) ricevevo le note informative da parte della facoltà elaborate dal comitato dell’Unione della gioventù socialista. Alla fine pensai che dovevo sbarazzarmi in qualche modo di questa tara ed entrai come manovale nell’azienda di stato Stavobet di Jinonice. Li per un po di tempo feci l’aiuto-muratore, poi lavorai come sterratore e alla fine entrai nella squadra dei betonieri. Con l’autunno iniziai il servizio militare: quando dopo due anni ritornai, avevo note informative soddisfacenti, ma la situazione si ripetè identica. Di nuovo, per alcuni mesi, non ebbi un lavoro fisso. Dato che a quell’epoca avevo già un bambino piccolo, per cui mia moglie era a casa, dovetti, mentre ero alla ricerca di un posto, guadagnarmi qualcosa facendo traduzioni, correggendo bozze, ecc. Rispetto a quella attuale, la situazione di allora era splendida, dato che non c’era nessuno che controllasse e vietasse alle aziende di assumermi per questi lavori abbastanza mal retribuiti. Poi all’improvviso la fortuna mi sorrise. Durante un colloquio (infruttuoso) in un istituto di ricerca, venni per caso a sapere che in un altro istituto, poco lontano, cercavano qualcuno che si occupasse della documentazione. Andò bene: a tre mesi dalla fine del servizio militare ebbi finalmente un impiego (con uno stipendio lordo di 900 corone che tuttavia venne aumentato dopo alcuni mesi). Restai in quell’istituto per circa dodici anni. Durante quel periodo dedicai la maggior parte del mio tempo libero alla ricerca e allo studio dei testi specialistici di filosofia. Dedicai un sacco di tempo anche a procurarmi microfilm di libri o di articoli che potevo avere tra le mani solo per poco tempo, insufficente per una lettura fuggevole e quindi tanto meno per lo studio. A mia moglie, che per un certo numero di anni rimase in casa con i figli piccoli, non davo grande aiuto. Per avere un po’ più tranquillità mi alzavo la mattina alle tre, tre e mezzo; alla sera andavo a dormire all’ora dei bambini e a volte anche prima. Così per più di dieci anni feci due turni di lavoro. Durante questo periodo cominciai a far uscire recensioni e articoli, dapprima brevi, poi sempre più ampi. Qua e là qualche volta interveniva la censura, oppure il direttore della rivista. Nel 1968 venni assunto all’Istituto di filosofia, come prova evidente che quel luogo aveva smesso di essere una riserva esclusiva per i marxisti.
Le mie esperienze del periodo in cui fui privato della possibilità di continuare a lavorare nel mio campo (un’attesa durata 16 anni dalla fine degli studi superiori) furono le seguenti: cercai un impiego fra mille difficoltà, nessun ufficio mi aiutava e le organizzazioni sociali, anzi, in parecchi casi, anche quando la situazione faceva ben sperare, si rivelarono un ostacolo. Ero un caso palese di discriminazione: nella nuova società non c’era posto per un filosofo che non era disposto almeno a presentarsi come marxista e che, anzi, era «tarato» dal cristianesimo. Ma nemmeno come cittadino mi era assicurata una parità di diritti; i cristiani erano sí tollerati, ma solo come un rudere destinato a una graduale scomparsa. Quando scrivevo un articolo per un giornale cristiano (ad esempio la «Křesťanská revue»), la sua pubblicazione veniva decisa da un operatore della casa editrice ecclesiastica il quale con il cristianesimo e le chiese non aveva niente a che fare: sotto i panni del direttore della casa editrice ecclesistica si nascondeva il solito censore di stato. Quando a poco a poco (negli anni sessanta) questa situazione assurda si avviò alla normalità, i più pedanti rimasero proprio questi direttori dell’editrice «ecclesiastica». Quando la dottoressa Čížkova vietò la pubblicazione sulla «Křesťanská revue» di una mia recensione di un libretto di Kosík, la recensione usci su «Plamen» senza che fosse cambiata neanche una virgola. La motivazione fu che una rivista cristiana non aveva motivo di recensire un libro marxista.
Non avrebbe avuto senso nel mio caso far notare come avrebbe potuto una famiglia di tre persone «vivere dignitosamente» con meno di mille corone e poi una famiglia di sei persone con meno di duemila (compresi gli assegni familiari): la famiglia di un pastore in circostanze analoghe era messa ancor peggio. La situazione, con il mio diritto al lavoro e al salario per il lavoro svolto, non era proprio eccellente. Ma il peggio doveva ancora venire.
Quando venne il momento di liquidare l’Istituto di filosofia, l’operazione fu condotta in modo veramente geniale. Esso venne unito all’Istituto di sociologia e ad altri centri di lavoro minori: il tutto figurava come riassetto. Per motivi di riassetto, il codice del lavoro ammette lo scioglimento del rapporto di lavoro. Questo scioglimento venne ammesso per alcune decine di lavoratori fra i quali anch’io. Così tornai a cercar un posto. L’Istituto doveva offrirmi qualche possibilità di trasferimento altrove: non me ne fu data nemmeno una. In queste circostanze l’ufficio di collocamento ha il compito di procurare delle occasioni di lavoro. Se la cavò sottoponendomi lunghi elenchi di posti liberi che non avevano niente a che fare con la mia qualifica. Avevo avuto tre mesi di preavviso, ma non trovai nulla (quando riuscivo a trovare qualcosa, nell’ultima fase dei contratti sempre qualcuno veniva preso dalla paura e non se ne faceva niente; nella maggioranza dei casi tutto andava in fumo all’inizio, quando si appurava che io venivo dall’Accademia – di solito questo bastava). Alla fine entrai, con un contratto a termine (per quattro anni, con possibilità di proroga per altri sei mesi) come guardiano notturno a metà tempo al Museo commemorativo della letteratura nazionale (però, siccome i miei colleghi erano molto anziani e spesso ammalati, con le ore di straordinario riuscivo quasi a raggiungere il tempo pieno). Grazie anche alla proroga, riuscii a rimanere al Museo per circa cinque anni, finché il nuovo direttore scoprì che io non potevo rimanere di più in un centro culturale così importante e così non rinnovò né prolungò il contratto. Mi trovai di nuovo alla ricerca di un posto. Ne accettai infine uno di guardiano di un’autoparcheggio. Dopo neppure un anno andai a fare il fuochista.
Non penso che il mio sia un caso particolarmente stridente: ci sono senza dubbio dei casi molto più stridenti e impressionanti. Anche così si può vivere e si possono educare i bambini e mantenere, come Dio vuole, le case. Nei momenti più duri, quando mia moglie era costretta a rimanere a casa e le mie entrate non erano sufficienti, ci aiutarono parenti ed amici: del resto ci hanno sempre aiutato. Ma il diritto al lavoro liberamente scelto o accettato? Il diritto a una vita dignitosa per la famiglia? E non parlo del diritto di partecipare alla vita culturale o del diritto alla tutela degli interessi morali e materiali, legati al mio lavoro. Nell’intera faccenda, comunque, c’è un’unica cosa degna di rilievo: io sono un filosofo, ho una qualifica professionale e circa cento pubblicazioni. Non ho mai smesso di lavorare nel mio campo, cioè di studiare e di scrivere. Per questo lavoro specialistico, di filosofia, per il quale ho una preparazione specifica e una qualifica (che del resto ho dimostrato con le mie pubblicazioni) sono stato retribuito per tre anni nemmeno interi. Se volessi emigrare dovrei sborsare in cambio dell’istruzione ricevuta, una somma di denaro molto più alta. Chi rimborserà questa parte, se io non emigrerò e continuerò a lavorare come fuochista o guardiano o portiere?
Indubbiamente l’eliminazione della disoccupazione è una delle più grandi conquiste del socialismo. (Comunque nel nostro paese la disoccupazione era già stata eliminata alla fine della guerra e non c’era quindi neppure bisogno del febbraio ‘48 e tanto meno delle assurdità e delle tragedie degli anni cinquanta, sessanta, ed ora degli anni settanta). Sui nostri giornali viene ripetuta la frase canonica «la sicurezza sociale dei nostri lavoratori». Di quali? Io per esempio non ho neppure la sicurezza che potrò continuare a lavorare come fuochista, come non ho potuto lavorare come guardiano notturno e in precedenza come filosofo. Di gente come me ce n’è molta. E questi altri? Quale sicurezza hanno? Forse se terranno a freno la lingua e faranno cenno di sì, saranno sempre ubbidienti ad alzare la mano quando ci sarà bisogno di alzarla e quando l’addetto darà loro istruzioni in questo senso – forse. Ma in questo modo deve essere interpretato l’inalienabile diritto al lavoro? Nel senso che l’uomo ha diritto di svolgere il lavoro che gli piace e per cui ha la qualifica, solo a condizione che glielo conceda un membro dell’apparato? Nel senso che non può far valere nessun altro diritto inalienabile, il diritto alla libertà di espressione delle proprie idee, alla libertà di ricerca e di diffusione con qualsiasi mezzo a propria scelta di informazioni e idee di ogni genere, il diritto alla libera manifestazione della religione e della fede a propria scelta, il diritto di riunione pacifica e di libera associazione con altri, incluso il diritto di fondare organizzazioni sindacali e a partecipare ad esse, di nuovo secondo la propria scelta, il diritto all’istruzione propria e dei propri figli senza alcuna discriminazione, il tutto solo in dipendenza del talento e delle capacità reali? E appena comincerà a godere di qualcuno dei suoi diritti inalienabili gli sarà negato quello al lavoro (e anche gli altri diritti)? Oppure gli sarà sì riconosciuto, ma solo per un lavoro, che diventerà un «lavoro punitivo»?
Nello spirito di una «logica» stravagante (ne vediamo esempi già da tre mesi) è anche possibile che uno si alzi e dica: «Io non ho mai avuto questi grattacapi; io ho sempre potuto lavorare liberamente; ho sempre potuto fare quello per cui ho capacità e qualifica». Ammetto che nella nostra società esiste anche gente simile; e ho persino la forte impressione che nel nostro paese ci siano molte persone che ricoprono funzioni per cui non hanno neppure la qualifica necessaria; che una marea di gente è pagata più di quanto spetti alla quantità e alla qualità del proprio lavoro; che molte persone svolgono, debitamente retribuite, un lavoro non necessario e inutile per la società. Deve passare molto tempo prima che qualcuno si accorga di questo (come altrimenti si potrebbe spiegare che la quantità di merci invendute o piuttosto invendibili che rimangono nei magazzini, corrisponde press’appoco alla quantità di merce prodotta superando il piano? – per non parlare della qualità del prodotto che si vende). Questo tuttavia non toglie niente al fatto che ci sono persone che hanno la qualifica ma che non possono farla valere; che lavorano senza riuscire ad essere retribuiti in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Nemmeno mille persone debitamente remunerate possono smentire, cancellare o magari «controbilanciare», anche un solo caso di retribuzione ingiusta. Il fatto che uno debba compiere un lavoro per cui non ha la qualifica pur avendo magari la licenza della scuola superiore e un ricco bagaglio di esperienze, non può essere annullato, anzi nel confronto la stonatura si fa ancor più stridente per il fatto che la funzione che egli potrebbe e dovrebbe ricoprire è ricoperta invece da uno che non ne ha la qualifica. Tutto questo non è solo una flagrante violazione del diritto al lavoro, come ben comprendono gli uomini intelligenti di tutto il mondo e come ben comprende anche la nostra legislazione, è anche una terribile, folle, idiota, perdita economica, culturale e morale, un sintomo della enorme crisi sociale che nessuno vuole ammettere, ma che c’è.
Potrei aggiungere perle ancora più assurde per completare il quadro della situazione. Un noto proverbio dice che nel capitalismo esiste lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre nel socialismo è tutto il contrario. Cito un esempio che merita il biasimo più sarcastico. Ci sono oggi dei campi in cui le persone ufficialmente competenti (cioè autorizzate) sono molto poche; si intende che in maggioranza non sono i più capaci (soltanto sono più di tutti «capaci di tutto»). Ci sono tuttavia molte richieste (proprio il contrario della situazione in cui ci sono pochi cavoli e molte lumache). E succede quel che segue. L’illustre compagno X, membro di questa e di quell’unione, insignito di queste e di quelle decorazioni, ecc., è obbligato a presentare, sistemare, scrivere questo e quello e ancora qualcos’altro e qualcos’altro ancora, ma in fin dei conti un paio di compagni fanno tutto fra di loro. Alcuni saprebbero arrivare a questo ma non possono; altri non saprebbero neppure. D’altra parte ci sono molte lumache a cui per punizione è stata ritirata la tessera che autorizza a mangiare i cavoli. Sono degli individui tanto pericolosi che è una vergogna e soprattutto c’è da aver paura ad aver contatti con loro. Ma sanno tradurre, fare drammi, scrivere, ecc. Così deve nascere tutta una serie di intermediari abili e pronti, che da una parte sollevano i compagni benemeriti dal fastidio (e dalla preoccupazione) di trattare con i proscritti e dall’altro sollevano i proscritti dal contatto penoso con gli uomini che sono a favore del regime e questo procura anche qualche corona. Gli onorari verranno corrisposti ai compagni benemeriti che ne trattengono una certa parte per i servizi inestimabili nei due sensi e il resto va alle persone che lavorano – anche se non possono – per non morir di fame.
Ad evitare malintesi, io sono lontano dall’idea che questo sia un prodotto della società socialista, che il socialismo conduca necessariamente a qualcosa del genere. Piuttosto io sono convinto che questi fenomeni dimostrano solo che nella nostra società diverse cose non hanno nulla in comune con il socialismo. Non chi richiama l’attenzione su questo disonora la nostra patria, ma chi contribuisce a questo stato di cose.
Praga, 7 aprile 1977.