Lettera n. 15
docx | pdf | html ◆ article | correspondence, Italian, origin: 9. 6. 1977
  • in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 147–157

Lettera n. 15

Caro amico,

sei venuto a sapere della seduta della rappresentanza sinodale della Chiesa evangelica dei fratelli cèchi, cioè della mia chiesa. La seduta è stata convocata eccezionalmente solo come reazione al testo che 31 membri della chiesa avevano indirizzato all’Assemblea federale e in cui con molta precisione si descriveva e si documentava la «Situazione della chiesa e dei fedeli» nel nostro paese. (traduzione italiana in CSEO documentazione n. 123, pag. 338 – n.d.t.) Il consiglio sinodale poteva rispondere anche senza convocare i rappresentanti, ma non era questa la sua intenzione come risulta da tutto l’andamento della riunione e dai documenti pubblicati. Non c’è nemmeno l’ombra dello sforzo di un affronto concreto e di una qualche argomentazione. In realtà il documento sulla «Situazione della chiesa e dei fedeli» evitava qualsiasi recriminazione nei confronti della dirigenza della chiesa e quindi il consiglio sinodale non doveva vederlo come un attacco nei propri confronti; ciononostante esso ha sottoposto all’approvazione della rappresentanza sinodale la lettera dell’Assemblea federale «che ridimensiona l’esposto inviato il 7 maggio dal gruppo dei trentuno e sottolinea che solo il consiglio sinodale può rappresentare la chiesa, difenderne gli interessi e i diritti». Per spiegare i motivi si aggiunge che «le ingerenze di alcuni fratelli nel campo delle competenze e dei doveri del consiglio sinodale durano ormai da diversi anni e sono diventate intollerabili». Il consiglio sinodale ha dunque sentito il dovere di protestare, anche se non era lui il destinatario dell’esposto. Non ha però reagito nei termini opportuni, ma ha proiettato tutta la faccenda sul piano del conflitto di competenze. Ai suoi occhi si tratta di un «gesto di indisciplina», di «un’iniziativa arbitraria», di un «appello arrogante». Neanche una parola sul contenuto dell’esposto, la cui arrroganza consiste nel fatto che 31 membri della chiesa si sono rivolti direttamente all’ Assemblea federale senza chiedere l’autorizzazione dei dirigenti della chiesa (e non l’avrebbero certamente ottenuta) o, meglio ancora, senza lasciare al consiglio sinodale stesso il compito di «lottare» per l’esistenza della chiesa. La chiesa invece, secondo il consiglio sinodale, non può vivere senza la necessaria disciplina, «che deve essere accettata da chiunque voglia rimanere membro della chiesa». Pertanto, su richiesta del consiglio sinodale, la rappresentanza sinodale ha approvato un nuovo regolamento di disciplina (che anni fa era stato annullato per disposizione del sinodo – ora è stato perfezionato) e ha nominato delle commissioni disciplinari «al cui esame vanno sottoposti i casi di violazione della disciplina». E dato che questa è l’unica iniziativa che il consiglio sinodale non può prendere da solo senza convocare la rappresentanza sinodale, è chiaro come il sole che la seduta straordinaria è stata convocata proprio per approvare il regolamento in base al quale possono subire sanzioni disciplinari coloro che si sono resi così gravemente colpevoli. Fra questi il dr. ing. J. S. Trojan, ex pastore del consiglio di Libiš, da alcuni anni privato dell’autorizzazione dello stato che gli è stata revocata senza spiegare i motivi, quantunque nessuna legge contempli questa possibilità (anche in questo caso si usano altre formule, ma la sostanza non cambia); egli, nel testo del rapporto, è senza mezzi termini denunciato come «uno dei principali promotori di tutta l’iniziativa».

Sia che abbia agito sotto pressione sia spontaneamente, il consiglio sinodale ha fatto quello che ha fatto. Il curatore del sinodo ha intrapreso un’iniziativa fuori della norma; a quanto si dice, egli stesso ha preparato (messo a punto) il testo del regolamento di disciplina. Pur avendo compiuto gli studi di legge (anche se non ha mai lavorato in questo settore), si è preoccupato di rendere operante il nuovo regolamento di disciplina anche per casi verificatisi prima dell’approvazione di questo. Trascinato dal suo spirito servizievole, si è compiaciuto di dimenticare (e con lui anche gli altri membri del consiglio sinodale e gran parte della rappresentanza sinodale) l’antichissimo principio giuridico secondo cui non esiste colpa prima della promulgazione della legge (nullum crimen ante legem). Ci fu un tempo in cui lo stimavo; oggi quel tempo è passato.

Stimavo anche il seniore del sinodo. Il suo comportamento deciso, il suo fare paterno, e l’apparente dignità, in un primo tempo, fecero sì che il cambia mento nella persona dell’esponente più alto della chiesa alimentasse molte speranze. Oggi penso che, se nel consiglio sinodale ci fossero state altre persone, l’immagine della nostra chiesa avrebbe potuto essere migliore. Ancora sette, otto anni fa ero fiero della mia chiesa; ero ingenuamente lieto che fosse migliore delle altre. Oggi mi rendo conto che sbagliavo, e sono contento di rendermene conto. Solo in questi ultimi difficili anni mi sono accorto che mi comportavo come il famoso fariseo, ringraziando Dio perché la mia chiesa e i suoi rappresentanti non erano come le altre chiese e i loro rappresentanti. Oggi sono guarito – perfettamente. Oggi vedo le «qualità» reali della mia chiesa; e vedo anche che essa ha il consiglio sinodale che si merita. La rinascita, la riforma civile e morale – per non parlare di quella spirituale – aspettano soltanto noi. La condizione è la penitenza, la conversione del modo di pensare e di tutta la vita. Solo oggi capisco veramente le antiche parole di Hromádka che diceva che noi siamo una chiesa borghese; è oggi che la mentalità piccolo-borghese celebra nella chiesa la sua grande vittoria. E se negli anni cinquanta, al tempo della lotta di Hromádka, fu necessario difendersi da questa mentalità, oggi un lavoro del genere appare dieci volte più necessario.

Io stimavo il seniore del sinodo. Sono quasi sicuro che all’inizio aveva delle grandi idee, ma non è riuscito a resistere all’urto della mentalità piccolo-borghese nella chiesa, non è riuscito a stare in piedi da solo. Nel suo caso, forse, non si è trattato tanto di debolezza di carattere ma piuttosto, mi sembra, di mancanza di fondamenti teologici, di superficialità teologica. Ma del resto, che cosa possiamo pretendere dal seniore del sinodo se guardiamo ai professionisti, ai docenti di teologia? Il seniore del sinodo sarà capace di protestare se si tratta con lui in modo non adeguato. Ma deve trattarsi di una cosa ben visibile. Se si agisce con cautela e abilità non se ne accorge. Così non si è neppure accorto dove lo pilotavano. Nel testo del rapporto sui 31 reprobi si scrive che «nella loro protervia hanno ignorato le argomentazioni, le preghiere e l’ordine del seniore del sinodo, il pastore della chiesa». Lo hanno circuito a tal punto che adesso a certe cose ci crede lui stesso e le dice di sé. Come si vede, dovremo prendere ancora una volta tremendamente sul serio la formula «semper reformanda».

I nostri fratelli del consiglio sinodale hanno assunto un atteggiamento autoritario verso la chiesa, i consigli e i singoli membri. Chi non è cieco resta stupito da questa sindrome dei vescovi che però, purtroppo, può essere provata solo all’interno della chiesa, mentre in apparenza i membri del sinodo si comportano piuttosto (con un’unica onesta eccezione) come «servi servorum», specialmente nei confronti degli uffici dello stato. Il «pastore della chiesa» non solo non convoca una seduta straordinaria della rappresentanza sinodale se l’amministrazione dello stato senza motivo ritira a qualcuno l’autorizzazione di predicare, ma impedisce che in un sinodo convocato regolarmente si affronti questo tema. Il «pastore della chiesa» non lascia il suo gregge per andare da coloro che si trovano in difficoltà, ma esprime il proprio disappunto perché alcuni fratelli si sono messi contro la legge e arriva addirittura, insieme agli altri, a denunciare il dr. Trojan come «uno dei principali promotori dell’iniziativa». Quando questo «pastore della chiesa» ha difeso pubblicamente gli insegnanti che non possono insegnare perché sono cristiani e partecipano alle assemblee di preghiera? Quando ha preso pubblicamente le difese dei fanciulli che fin dalla più tenera età sono oggetto di pressioni da parte della scuola solo perché si iscrivano al catechismo nel minor numero possibile? Quando si è mosso per sostenere i giovani che, anche se hanno capacità eccezionali, non possono studiare perché si sa che credono in Cristo? Che cosa ha fatto ufficialmente questo «pastore della chiesa» perché i giovani al di sotto di 18 anni potessero riunirsi nei seniorati e perché restassero in vita le brigate di cristiani? Che cosa ha fatto questo «pastore della chiesa» perché potessero essere nuovamente allacciati i contatti ecumenici fra i consigli, perché potesse essere ripreso il lavoro del seminario ecumenico sospeso, per volontà dell’amministrazione dello stato, dopo gli anni del dialogo? Che cosa ha fatto questo «pastore della chiesa» perché potessero essere impiegati nella chiesa gli esperti allontanati dai propri posti di lavoro? In queste e altre occasioni «ha fatto ricorso al peso della sua autorità» quando si trattava delle pecore a lui affidate? Davanti a tutto questo sfacelo non ha detto una parola (almeno a livello ufficiale) e non ha sentito il bisogno di reagire neppure quando subì pressioni fortissime perché a nome suo e del consiglio sinodale condannasse, ad esempio, Charta 77, allorché la prima dichiarazione generica e diplomatica fu ritenuta insufficiente e ne fu richiesta una più esplicita e univoca. Quella era forse l’ultima occasione per manifestare con le sue dimissioni l’opposizione e il rifiuto davanti a un modo di procedere cosi arbitrario e illegale. Ma il «pastore della chiesa» ha scelto un’altra strada per «salvare» la chiesa; ha cominciato a minacciare le dimissioni a un pastore privato dell’autorizzazione dello stato fatto venire appositamente. Ha fatto il nome di questo pastore come di un responsabile e lo ha deferito all’amministrazione dello stato perché fosse punito; e anche al comitato di disciplina recentemente istituito, anche se questo non riuscirà, almeno con la commissione adibita a questo scopo. Singolare esempio di prassi profondamente cristiana; in pasto ai lupi si getta qualche pecora già malconcia, ed eventualmente anche qualche pastore acciaccato, che non hanno contribuito ad instaurare buoni rapporti con il lupo.

Ma tutto questo si fonda sull’equivoco o addirittura su una teologia scadente. Chi osservi attentamente il contesto in cui viene riportata, nel Vangelo di Matteo, l’espressione di Cristo: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16), deve riconoscere che questi lupi non stanno né fra i pagani, né fra i Samaritani, ma sono gli Israeliti stessi (Mt 10,5–6). Anche a me, infatti, sembrò in certo qual modo un controsenso che il rapporto sulla «Situazione della chiesa e dei fedeli» puntasse esclusivamente alla critica degli organi dello stato. Oggi non c’è dubbio che una qualsiasi critica alla guida della chiesa sarebbe sempre l’occasione adatta per una reazione ancora più dura del consiglio sinodale. In questo senso si può dire che, da un punto di vista tattico, è meglio che il rapporto abbia evitato una critica del genere. Ma ciò che è tattico non è detto che sia anche cristiano. In senso cristiano ogni critica radicale deve cominciare dalla «casa di Dio» (infatti la prima cosa che Gesù fece, dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme, fu cacciare tutti quelli che compravano e vendevano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e dei venditori di colombe, poiché della chiesa avevano fatto «una spelonca di ladri»). A farla breve, i ladri e i lupi vanno in primo luogo cercati dentro la chiesa e non fuori.

Perché il consiglio sinodale non si assume questo compito? Usiamo le espressioni di cui, più di 20 anni fa, si servi J. L. Hromádka: «…per motivi teologici? Per vera fede? Oppure per pigrizia, per paura o addirittura per vigliaccheria?». Nel comunicato ai consigli, il consiglio sinodale informa: «Questa iniziativa arbitraria di un gruppo di fratelli ci ha riempito fin dal pri mo momento di una grande preoccupazione per la dottrina, l’unità e la missione della chiesa». È straordinario che sia indicata al primo posto la preoccupazione per la dottrina della chiesa, mentre poi in tutta la lettera non c’è neppure una prova dell’incertezza dogmatica nel testo che costituiva il nucleo del rapporto all’Assemblea federale. Il concilio di Costanza raccolse tutte le citazioni delle prediche di Hus. Il consiglio sinodale non fa niente di simile; esprime solo la propria preoccupazione per la dottrina della chiesa e questo deve bastare alla chiesa per condannare un testo che non conosce e di cui è all’oscuro. Che sia la facoltà ad assumersi il noioso lavoro della documentazione. E così la facoltà scrive i suoi otto punti: non si tratta davvero di un grande lavoro. Ogni punto, un goal per la propria rete. E in più insinuazioni e menzogne. Gli insegnanti stessi della facoltà definiscono il parto del loro spirito come segue: «Le tesi toccano aspetti estremamente attuali della nostra tradizione religiosa e al tempo stesso evitano gli appelli programmatici teologicamente scorretti che potrebbero sviare la nostra decisione dalla fede». Quindi tutte queste assurdità e tutte le fandonie che i docenti della facoltà non hanno neppure firmato – certamente per modestia – sono frutto di una decisione di fede, se mai a qualcuno di loro sembra sconcertante che la decisione di fede dei professori sia stata turbata a causa «dello sforzo, che dura ormai da anni, di trascinare la Chiesa evangelica dei fratelli cèchi in una lotta politica su posizioni teologicamente scorrette che rifiutano la realtà sociale e politica del socialismo in cui viviamo e alla cui realizzazione vogliamo contribuire».

Nel loro punto 6 i docenti dicono: «La chiesa deve essere un fattore di unità e un vincolo di pace». A prima vista questo sembra vero. Ma la menzogna peggiore è quella che assomiglia alla verità. Di unità e di vincolo di pace parlano proprio i professori e i docenti che tempo fa sospesero lo studente Tydlitát perché, proprio nello spirito di unità della fede, aveva osato pregare in pubblico per il predicatore Svat Karásek allora in carcere. Non tutti hanno il diritto di parlare di unità e di pace. I nostri illustri docenti si trovano fra coloro che «curano la ferita del mio popolo ma solo alla leggera, dicendo: «bene, bene!», ma bene non va» (Ger 6,14). Va forse bene per gli insegnanti che non possono insegnare (a meno che non rinneghino la propria fede), per i giovani che non possono studiare a causa dei «residui della religione»; che bene è per i ragazzini che non possono accostarsi a Cristo, e fin dall’infanzia devono prendere lezione da queste volpi dei nostri illustri docenti universitari? Da queste volpi che «ripongono la propria speranza in parole menzognere che non servono?».

I professori di teologia iniziano il loro primo punto dichiarando sfrontatamente che «nella comunità della chiesa evangelica dei fratelli cèchi noi partecipiamo alla comune chiesa di Cristo», e ancor più sfrontatamente proseguono: «questa (cioè la chiesa di Cristo) nata per la volontà misericordiosa di Dio, vive della giustizia di Cristo, si sottomette alla guida del suo Spirito». Oggi, tuttavia, ogni membro di questa chiesa è messo davanti a una domanda fondamentale: lo stato in cui si trova la Chiesa evangelica dei fratelli cèchi più che la manifestazione della volontà misericordiosa di Dio non è piuttosto la conseguenza dei voleri di Dio? Questa chiesa temporale vive della giustizia di Cristo oppure partecipa alle repressioni che, contro ogni giustizia, colpiscono i veri testimoni? Questa chiesa, i suoi dirigenti e i suoi esperti universitari si lasciano guidare davvero dallo Spirito o piuttosto cercano con tutte le forze di chiudere la bocca a chiunque parli secondo lo Spirito e la verità? Qual è allora veramente la missione della chiesa? E da che cosa si riconosce che la chiesa adempie veramente alla sua missione?

Solo un anno prima della «presa del potere» da parte di Hitler, Dietrich Bonhoeffer scrisse queste parole veramente profetiche: «La chiesa è un pezzetto di mondo, di un mondo perduto, malvagio, maledetto, presuntuoso, cattivo; un mondo cattivo alla massima potenza, perché in esso si abusa del nome di Dio, perché in esso di Dio si è fatto il camerata o l’idolo dell’uomo, sì il pezzetto di un mondo che sarà per sempre maledetto e anticristiano, se essa negherà un’ultima solidarietà a questo mondo e si vanterà di prendere le distanze da esso». È solo la metà di quello che nel passo citato si dice della chiesa, ma è proprio questa metà che oggi ci richiama fortemente quello che abbiamo potuto leggere negli ultimi documenti del consiglio sinodale e dei docenti universitari. E ci piace esclamare insieme a Kierkegaard: «Chiunque tu sia, amico, qualunque sia la tua vita, per me hai un’unica grande colpa, che … non ti interessi se fanno di Dio un pazzo, chiamando cristianesimo del Nuovo Testamento ciò che non è cristianesimo del Nuovo Testamento».

È proprio vero – e qui mi trovo pienamente d’accordo con Hromádka – «che la chiesa in quanto tale è un fattore politico e porta sulle sue spalle il peso, l’onore, la colpa, i successi e gli insuccessi, le vittorie e le catastrofi dei popoli, degli stati e dei sistemi sociali». E proprio vero anche che «solo di rado gli uomini raggiungono l’autentica libertà interiore di fede che fa dei cristiani gli autentici sovrani nella prassi politica». Oggi è naturale che la degenerazione spirituale, morale e politica della nostra società si rifletta (e non può non riflettersi) anche nella chiesa. Ma la chiesa non c’è solo per riflettere lo stato della società o per soffrire degli stessi mali della società in cui vive, ma per indicare la via verso la guarigione e la verità. Ma non può fare questo se non si pone al centro della società, al centro del mondo; non può fare questo senza prendere su di sé come propri anche le infermità, i mali, la miseria e la sofferenza della società. Ma questo non significa che deve copiare il mondo, che si deve contagiare con tutti i mali che contagiano il mondo; questo non serve, in questo non c’è nessun utile. La chiesa deve vedere, non simulare, deve svelare la sua propria colpa in tutte le infermità, i mali, la miseria e la sofferenza.

E per essere capace di questo deve vedere queste infermità, questi mali e questa sofferenza e deve vederli alla luce della verità; altrimenti tutto il suo dire e fare sono solo un gesto falso, vano. Il fatto che la chiesa si riconosca responsabile dei mali della società permette anche di parlarne pubblicamente con verità e senza farisaismi. In questo consiste appunto la solidarietà fondamentale della chiesa con il mondo e la società in cui vive; non nel fatto che la chiesa (forse solo i suoi rappresentanti) collabora a camuffare con inganni e menzogne la realtà, ma nel fatto che mette in piena luce questa realtà – e quindi anche la sua propria realtà – senza ombra di autogiustificazione. Così facendo, compie senza dubbio la sua opera; ma la libertà della fede ci libera dall’odio verso il mondo. La libertà della fede però ci permette anche di smascherare le false immagini di «unità» della chiesa e di svelare la menzogna delle affermazioni secondo cui chi nel nostro paese non osa dire pane al pane e vino al vino «nella libertà della fede si identifica con il molto di buono che si fa per l’uomo».

Praga, 9 giugno 1977.