Lettera n. 12
docx | pdf | html ◆ article | correspondence, Italian, origin: 5. 5. 1977
  • in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 119–127

Lettera n. 12

Caro amico,

ti scrivo di nuovo con ritardo e questa volta ancora più lungo. I motivi però sono sempre gli stessi. Proprio nel giorno in cui dovevo scriverti, sono venuti in chiesa dei signori in borghese e mi hanno portato a casa per una perquisizione domiciliare. Questa volta avevano il mandato quasi in ordine con tanto di firma (illeggibile) del procuratore, senza però il timbro della procura. Quanto al resto si sono comportati in modo molto corretto. Finita la perquisizione, mi trovavo al mio posto di lavoro da neppure due ore quando sono tornati di nuovo. Questa volta mi hanno portato via senza mandato e mi hanno condotto nella Konviktská dove uno di loro mi ha solamente firmato il mandato. Poco dopo dalla CPZ (cella per l’arresto preventivo) mi hanno portato per un breve interrogatorio da un altro funzionario e in circa 3 ore sono stato messo al corrente dei capi d’accusa contro di me (detto tra parentesi, erano addirittura assurdi e, soprattutto, non erano fondati su prove o fatti rilevanti). Dopo l’interrogatorio, nel quale ebbi anche la possibilità di esprimermi su tutta questa assurda faccenda, fui informato che il giudice istruttore proponeva il fermo, sul quale tuttavia il procuratore non poteva esprimere il suo parere in quanto non era a disposizione (questi lavori si fanno fino al venerdì pomeriggio). Benché le 24 ore che il procuratore ha a disposizione debbano essere calcolate a partire dalla denuncia del capo d’accusa, io non venni liberato domenica pomeriggio, ma solo alla mattina di lunedì, quando ritornarono i funzionari della procura (quindi in tutto dopo 90 ore, cioè a circa 67 ore dalla denuncia dei capi d’accusa; quindi sono rimasto illegalmente in stato di fermo per circa 19 ore). L’accusa, comunque, non fu ritirata.

Spero mi scuserai se ti scrivo solo oggi, dopo aver lasciato passare una settimana, anche se all’inizio ti avevo promesso che ti avrei scritto ogni settimana. Cerco di nuovo di mettere da parte le torchiature della polizia e di concentrarmi su qualcosa di più sostanziale. Coloro che fanno valutazioni «tecnico-politiche», oggi ormai perdono il gusto ed anche – mi sembra – la volontà di andare avanti. Dopo la morte di Patočka, c’è stata come una pausa, i tentativi di andare avanti davano un po’ l’idea dei pancotti per le vecchie che non hanno forza e denti, anche se proprio allora c’era l’occasione di richiamare a radici più profonde, alle radici più profonde della libertà umana e quindi anche ai motivi ultimi di ogni lotta per l’umanità, per la libertà dell’uomo e i diritti dell’uomo. Vorrei allora cercare di indicare che cosa è nella vita dell’uomo la cosiddetta coscienza! Perché, a quali condizioni e in quali circostanze l’uomo può e deve, nonostante tutte le istanze, richiamarsi alla sua coscienza e in particolare anche perché l’appello alla coscienza non significa aprire un pertugio per l’individualismo e il soggettivismo. E dato che negli ultimi giorni ci sono stati i primi processi in cui si doveva decidere la legittimità dei licenziamenti ai danni dei firmatari di Charta 77, comincio ricordando la posizione della procura generale, a cui di fatto facevano riferimento i verdetti.

La posizione della procura generale venne innanzitutto comunicata ai portavoce di Charta 77 e subito dopo fu pubblicata sulla stampa quotidiana: immediatamente tutta una serie di firmatari ricevette citazioni alle procure municipali o regionali dove fu loro illustrata la posizione. Quando io ebbi l’opportunità di dire la mia in proposito, feci innanzitutto notare che la procura non è competente a definire se Charta 77 è o non è un testo di protesta, dal momento che una decisione in merito può venire solo dal tribunale, mentre la procura è tenuta a procedere contro ogni violazione delle leggi. Espressi analogo parere anche in occasione delle perquisizioni domiciliari e degli interrogatori.

Oggi sono già cinque mesi che dura questa situazione particolare, anomala. La procura non ha ancora aperto (per quanto ne so) nessun procedimento per la pubblicazione, la divulgazione e la ratifica di Charta 77 e dei documenti ad essa collegati; ha invece dichiarato che Charta 77 e i documenti ad essa collegati sono in contrasto con le leggi cecoslovacche. Il che vuol dire che la procura non fa quello che deve fare (cioè non persegue un reato) ma al contrario fa ciò che non deve fare (cioè decide che cosa è reato). E questa è la prassi che seguono anche i tribunali: benché non esista alcuna sentenza giudiziaria a proposito del Manifesto di Charta 77 e degli altri documenti, i processi vengono regolarmente gestiti in base al presupposto che l’aver firmato Charta 77 è un atto illegale ed è un motivo valido per essere licenziati dal posto di lavoro.

Nella posizione della procura generale si ricorda che la libertà di espressione (sancita dalla Costituzione cecoslovacca) deve essere fatta valere nell’interesse del popolo lavoratore. Solo in margine facciamo notare che questa è un’interpretazione capziosa del testo dell’articolo della Costituzione nel quale le libertà di espressione in tutti i settori della vita sociale viene garantita proprio perché è in sintonia con gli interessi del popolo lavoratore. Il testo del primo comma dice espressamente che la garanzia della libertà di espressione risponde agli interessi dei lavoratori; in nessun caso si può desumere dal testo che gli interessi dei lavoratori rappresentino una condizione e che pertanto condizionino le applicazioni della libertà di espressione o delle garanzie pertinenti a queste applicazioni. In merito all’applicazione, quindi al godimento della libertà di espressione (cioè soprattutto della libertà di parola e di stampa) si dice che «i cittadini godono di questa libertà sia per lo sviluppo della loro personalità e delle loro energie creative, sia per affermare la loro partecipazione attiva alla gestione dello stato e all’edificazione economica e culturale della patria». Quando quindi nella sua posizione la procura generale dice che «la libertà di espressione deve però essere applicata in base alla Costituzione nell’interesse del popolo lavoratore e non in contrasto con le leggi vigenti», non solo fa qualcosa per cui non ha competenza, ma cade anche in errore. Ma c’è per noi anche qualcosa di più.

Il modo in cui la procura generale interpreta il testo della Costituzione dichiara sì, oggettivamente, le garanzie costituzionali della libertà di espressione, ma non è oggettivo nei confronti della procura stessa e in genere dello spirito che regna nel nostro mondo giuridico, nel mondo della nostra legislazione e della nostra applicazione delle leggi. Non si tratta cioè solo di un abuso di competenza da parte della procura generale, ma di una tendenza dominante nel nostro ordinamento giuridico. Il tentativo da parte di un organo ufficiale dello stato di interpretare in maniera deformata un dato punto del testo della nostra Costituzione, non solo è una prova estremamente grave di violazione delle leggi operata ai più alti livelli, ma anche un sintomo straordinariamente importante di quello che è l’atteggiamento generale dei nostri uffici e della nostra gestione politica davanti al problema, o piuttosto alla realtà, dei diritti umani e delle libertà civili inalienabili. Un segno caratteristico di questo modo di procedere è il tentativo di condizionare ciò che è incondizionabile, di sospendere ciò che è inalienabile, di problematizzare e relativizzare cio che è inalienabile: in sostanza si cerca di spostare l’interesse dal «fine senza limiti» per cui esiste la libertà, verso un effetto limitato, cioè a garantire e affermare un interesse limitato. A un primo sguardo (molto superficiale) potrebbe sembrare che l’interesse non sia poi tanto limitato, si tratta, infatti, degli «interessi del popolo lavoratore». Ma come può un diritto inalienabile degli esseri umani essere condizionato a qualcosa di tanto indefinito, che ha bisogno di una chiarificazione più precisa, come «gli interessi del popolo lavoratore»? Chi è accreditato a stabilire quali sono i reali, veri interessi del popolo lavoratore? A chi può fare appello colui che viene derubato della libertà e che vede limitati o calpestati i propri diritti fondamentali? Un uomo dove può trovare questo arbitro supremo che gli dia ascolto, anche se il suo processo si è già concluso e nel suo caso la sentenza di colpevolezza è già stata ratificata in ultima istanza, senza più nessuna possibilità di appello?

La tendenza dominante nel nostro ordinamento giuridico è chiara: l’uomo non ha il diritto di appellarsi ulteriormente. L’organo della giustizia decide la sua colpa, il tribunale non ricerca questa colpa, ma la definisce. In teoria questo è chiarissimo; nella pratica porta difficoltà e contrasti. La prassi della nostra giustizia e tutta la nostra esperienza sociale ci insegnano, ad esempio, che nel nostro paese è possibile che persone ingiustamente condannate a morte vengano riabilitate dopo molti anni. Sappiamo anche che non si tratta di una nostra specialità cecoslovacca, che non siamo un’eccezione nel campo socialista. Sappiamo anche che un nostro tribunale può giudicare innocente un colpevole. Come ci si può difendere da questi errori giudiziari, o da queste violazioni della legalità e delle leggi commesse per noncuranza o forse per cinismo? La procura generale che cerca di condizionare i diritti civili e le libertà dell’uomo agli «interessi del popolo lavoratore», alla cui interpretazione è designato solo un organo dello stato, non è certo il giusto difensore di questi diritti e di queste libertà. Una funzione di straordinaria importanza potrebbero averla i tribunali, se fossero realmente indipendenti e potessero giudicare secondo la loro migliore coscienza. Ma la coscienza dei giudici può significare realmente qualcosa (e resistere) solo a condizione che siano i cittadini, per lo meno la stragrande maggioranza dei cittadini, ad avere coscienza. Ma che cosa significa avere coscienza? A che cosa si appella in noi colui che vuole appellarsi alla nostra coscienza?

Già in una lettera mi sono occupato dei motivi per cui il rispetto e la violazione dei diritti e delle libertà fondamentali non sono e non possono essere una faccenda interna di uno stato. Lo stato non è sovrano in senso assoluto, in quanto esistono ambiti in cui la sua ingerenza, sia ideologica o addirittura autoritaria non è legittima, esula dalle sue competenze e risulta anzi dannosa, innanzitutto per i cittadini ma in ultima analisi anche per lo stato […] nelle questioni della verità, del diritto, della giustizia, del bene, del bello, cioè soprattutto per quello che riguarda i valori e i criteri culturali e civili è inevitabile che lo stato e l’intera società precipitino nelle paludi della menzogna, del torto, della vergogna. L’uomo infatti, per il suo rapporto con la verità, il bene e il bello, non ha bisogno di nessun intermediario ma solo di un maestro e di fratelli più grandi che possano dargli una mano: neppure essi però hanno in mano la patente di infallibilità. Alla fine siamo soli quando si tratta di decidere che cosa è verità e che cosa è menzogna, che cosa è diritto e che cosa è torto, che cosa è giusto e che cosa è ingiusto, che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è bello e che cosa è kitsch. E anche se abbiamo un maestro, e anche se possiamo e dobbiamo consigliarci con i più prossimi e con quelli di cui ci fidiamo, alla fine dobbiamo essere noi a decidere secondo la nostra responsabilità. E questa responsabilità non è condizionata a nessuna responsabilità verso gli uomini, verso la società, verso qualsiasi organizzazione del potere, verso lo stato, verso la nazione, verso la patria, ma costituisce essa il fondamento più profondo. In relazione alla responsabilità ultima l’uomo è posto davanti al dovere supremo di rispondere con il suo assenso o con il suo rifiuto a un appello che altri uomini non sono autorizzati a definire, ma al massimo a interpretare. È posto ad esempio davanti all’appello della verità stessa, e mai la verità può e deve essere scambiata con una qualsiasi interpretazione, con nessuna formula personale. C’è solo da tentare sempre di rispondere al suo appello, alla sua chiamata. Davanti alla verità, alla giustizia, al giusto, al bene, al bello, tutti gli uomini sono uguali; non c’è nessuna funzione che autorizzi nessuno a farsi sciamano della tribù o della classe, anzi ognuno è autorizzato a respingere qualunque posizione simile nei confronti della verità e della giustizia. Il prezzo è di assumersi il rischio della rivalsa da parte degli sciamani, e non di rado, anche da parte di un’opinione pubblica disinformata e inconsapevole.

Così l’uomo che ha deciso di prestare ascolto alla sola verità, e non ai sedicenti amministratori e agli interpreti accreditati, si sente spesso nella pesante e umiliante situazione dell’outsider, del tapino bistrattato, che agli occhi della maggioranza non ha alcuna competenza, nessun diritto, che non ha ricevuto incarichi da nessuno e che quindi non parla per nessuno ma solo per sé. Contro un simile individuo (o anche alcuni individui) è facile suscitare l’animosità e l’odio delle folle; un individuo del genere si può attaccare e zittire facilmente, se non trova sostegno negli altri. Ma guai a colui che in questa situazione difficile abbandona la strada della responsabilità davanti alla verità e conforma le sue parole e le sue azioni a qualche gruppo in cui cerca sostegno e protezione. Invece di restare testimone della verità, diventa l’ideologo e la tromba di quel gruppo, abbandona il libero servizio alla verità e lo baratta con un servizio non libero, con la schiavitù a un gruppo. Quest’uomo conosce la verità, ma ha deciso di fraintenderne la voce. Quest’uomo può essere apostrofato da un altro uomo che gli può ricordare la verità. La decisione dell’uomo che serviva la verità e che ha abbandonato il servizio alla verità per qualcosa di più redditizio non può appellarsi a nessun interesse individuale, di gruppo o nazionale, non può appellarsi all’interesse della patria, della classe o agli interessi del «popolo lavoratore» perché tutti questi interessi sono qualcosa che deve essere prima formulato e interpretato, qualcosa, cioè, che deve prima presentare la sua vera forma alla luce della verità. L’uomo che ha cessato di servire la verità trova sempre qualche interpretazione che gli conviene, che gli permette di continuare a tradire la verità. Ricordare la verità a un uomo del genere è possibile, ma solo se facciamo appello alla sua coscienza. Se la chiamiamo al dovere di rispondere all’appello della verità, se le ricordiamo che qui non si tratta tanto di una data situazione politica o di potere, ma di una norma suprema del criterio ultimo sul modo come viviamo questa situazione: davanti a questo criterio non contano le difficoltà dell’esistenza, i momenti difficili, ma solamente la verità che deve essere affermata costi quel che costi, anche se costa molto, anche se costa tutto. Davanti alle pretese dell’uomo e della società uno può avere delle riserve, delle riserve legittime. Davanti alle esigenze della verità, invece non abbiamo riserve, siamo senza scappatoie, senza scuse, senza pretesti. Nel faccia a faccia con la verità noi dobbiamo rinunciare a noi stessi, alla nostra posizione, al nostro comodo, anche a quello che amiamo di più, a quello che ci è più caro; dobbiamo essere pronti a rinunciare anche alla libertà, anche alla vita, se occorre. Con la verità non si può incontrare colui che non è pronto a rinunciare a tutto ciò, che non è pronto in una situazione di pericolo estremo a restare suo servo e suo testimone. Chi invece è pronto a questo, nessun strumento umano riuscirà a dissuaderlo e intimorirlo. Quest’uomo non può essere maltrattato, dispregiato: anche nel momento dell’umiliazione suprema, anzi proprio in essa, non cesserà di essere un testimone della verità.

Praga, 5 maggio 1977.