- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 129–135
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- Dopis příteli č. 13
Caro amico,
chiedi – e siete in molti nel nostro paese – come vada intesa e valutata la volontà di un importante firmatario della Charta di andarsene dalla nostra repubblica. Il problema divenne di attualità quando, poco dopo la dichiarazione del cancelliere austriaco Kreisky, i nostri uffici cominciarono a proporre l’emigrazione ad alcuni eminenti chartisti. Allora tutti rifiutarono, ma poi si fece avanti il filosofo Menert, al quale gli uffici non avevano fatto la proposta, e ora il numero degli aspiranti è aumentato. Il tuo interesse è polarizzato soprattutto sul noto politico ex-segretario della commissione giuridica del comitato centrale del PCC, poi segretario del comitato centrale del PCC; chiedi che cosa significa di per sé la partenza per l’esilio di un uomo del genere e che cosa può significare per la situazione della Charta e dei chartisti.
Direi che di per sé il fatto dell’emigrazione non può essere legittimamente condannato; il diritto di lasciare la propria patria, così come il diritto di ritornarvi di nuovo, è un diritto umano e civile fondamentale. Quelli invece che possono e devono essere valutati e giudicati sono i motivi per cui un dato individuo emigra. Questi motivi dovrebbero superare la prova di una verifica critica, ma per potere essere giudicati, i motivi dovrebbero essere formulati. Di rado, invece, un politico può e vuole illustrare esaurientemente i motivi che lo portano a una data decisione; per di più oggi viviamo in una situazione in cui in genere sono pochi quelli che hanno il coraggio di aprirsi completamente. Pertanto, allo stato attuale delle cose, non ci sono elementi sufficienti per capire e giudicare se la partenza di Mlynář al fondo sia giusta. Solo il futuro lo potrà dire. Il che non toglie che non possiamo esaminare l’intero problema a un livello generale.
Un politico che emigra per effetto di una dura pressione, ma non per costrizione (come esule), lo può fare per due motivi: o perché rinuncia al suo programma e alla sua linea politica, oppure perché decide di realizzarlo con altri mezzi e su altre basi. Consideriamo innanzitutto la prima possibilità. È umano che un individuo, magari anche dopo inizi promettenti, si accorga che gli ostacoli e le difficoltà sono all’improvviso troppi, che il rischio è grande e il proseguire in un certo cammino esige molto, che tutto questo supera le sue forze e le sue possibilità. Ognuno è in grado di veder meglio da solo di che cosa è capace; sarebbe scorretto se noi volessimo addossare a qualcuno un carico che non è capace di sopportare, oppure se gli negassimo il diritto di deporlo, una volta accortosi che è troppo pesante. Noi presupponiamo che il modo con cui un uomo si pone davanti a un fatto e si tira fuori dagli impegni eventualmente già assunti sia serio e degno di rispetto. Se uno ha deciso di non firmare la Charta non ce l’ho con lui; una cosa certo è non firmare, e un’altra cosa è firmare e poi ritrattare.
Il fatto che sotto il fuoco di fila dei pezzi pesanti solo un firmatario abbia ritrattato costituisce, per la realtà cèca, un autentico, piccolo miracolo.
Naturalmente, un politico che dall’inizio rappresenta uno dei principali funzionari della Charta si è assunto anche un certo impegno. Se decide di andarsene, questo vuol dire che non mantiene il suo impegno, almeno non nel senso originale. Fin dall’inizio, il programma di Charta 77 rappresenta il tentativo di affermare e consolidare la legalità nel nostro paese e di accentuare in esso il rispetto per le libertà e i diritti umani e civili. In una delle prime lettere ti spiegai perché sono convinto che questa lotta, in difesa delle leggi che proclamano e garantiscono i diritti umani e civili, può essere combattuta solo sul terreno della nostra patria o eventualmente su quello del campo socialista nel suo insieme, anche se il sostegno dell’opinione pubblica internazionale non è trascurabile e ci è sempre gradito. Il politico che decide di lottare altrove, all’estero, per i diritti umani e civili nel nostro paese deve chiedersi se non ragiona in modo errato, oppure se la sua lotta politica per i diritti umani e civili non si è ridotta a un mero gesto retorico. Personalmente sono convinto che la scelta di spostare sul campo internazionale il fronte principale della lotta per i diritti umani e le libertà civili costituisce un grossolano errore politico.
Certo una lotta simile che investe la politica interna può protrarsi per anni e forse per decenni. E lo stato di pericolo per alcuni individui può aggravarsi al punto che l’asilo all’estero può apparire come una necessità inderogabile. Inoltre qui è determinante la valutazione del futuro che non deve essere nascosta dal corso effettivo degli avvenimenti. Nell’ottica della generazione futura, l’emigrazione di alcuni può apparire come un gesto sconsiderato, ma è possibile anche il contrario: può sembrare strano che alcuni uomini non abbiano lasciato il paese a tempo opportuno.
Se l’emigrazione non deve avere solo il carattere di una soluzione privata è necessario partire con una certa idea. Fu diversa la partenza per l’esilio di Comenio o di Masaryk (entrambi in attesa che si risolvesse la situazione dopo le vicende belliche ed entrambi per un periodo relativamente breve. Il primo prese un abbaglio, il secondo vide giusto). Diversa fu, dopo la disfatta in guerra della Germania, la partenza di Jaspers (per protesta contro la situazione in Germania, anche se non era stato perseguitato, e senza l’intenzione di ritornare). La scelta di emigrare trova motivazioni molto differenti: alcune vanno senz’altro approvate (ed eventualmente raccomandate), altre possono essere riconosciute o per lo meno non suscitano obiezioni, altre, infine, non possono essere appoggiate, neppure se ci viene richiesto. Ci fu un tempo in cui centinaia di famiglie si trasferirono nelle Americhe perché in patria non avevano di che vivere. Oggi la penuria di posti di lavoro non esiste più nel nostro paese (almeno non è evidente), ma nel caso di alcuni individui viene creata ad arte. In contrasto con le nostre leggi e i nostri impegni internazionali, Zdeněk Mlynář ricevette la notifica di licenziamento ratificato poi come valido per via giudiziaria. Per i firmatari di Charta 77, e in particolare per un uomo politico così criticato, è quasi da escludere oggi la possibilità di trovare un nuovo datore di lavoro, come hanno modo di verificare quotidianamente decine di persone ugualmente discriminate e sempre in continuo aumento. Che soluzione si offre ad un uomo che non vuole procurare noie ai propri amici e conoscenti? I nostri ambienti ufficiali hanno fatto di tutto per costringere Mlynář ad andarsene dal nostro paese e a trovare da vivere all’estero. Pertanto non è possibile giudicare negativamente Mlynář per aver scelto questa possibilità.
Non va però trascurato il fatto che oggi in questo campo decine, centinaia di persone stanno peggio di Mlynář: dal 1970 sono state decine di migliaia gli individui costretti a cercare tra enormi difficoltà un lavoro di ripiego, per nulla rispondente alle loro qualifiche. Lo so per esperienza personale e ho già anche scritto in proposito. Eppure questa gente continua a vivere nel nostro paese. Intanto. Indubbiamente l’obiettivo politico della repressione contro tante persone sul lavoro non è di costringerle all’emigrazione, ma di schiacciarle. L’emigrazione è una via d’uscita solo per pochi eletti. Io comunque penso che se oggi i nostri confini fossero aperti per tutti, sarebbero partite altre persone, ma fra queste ci sarebbero stati pochissimi firmatari della Charta. Così facendo i chartisti dimostrano di non voler semplicemente attendere la loro occasione ma piuttosto di nutrire la speranza di lavorare per questo paese e per gli uomini che vivono in esso come meglio possono e come loro detta la coscienza. Vogliono che la verità trionfi sulla menzogna, la giustizia sull’ingiustizia, il diritto sull’umiliazione, la libertà sull’arbitrio. Si può pensare che usando la maniera forte sia possibile costringere ad emigrare, ma finché rimarrà un briciolo di possibilità essi sono risoluti a rimanere qui. Se qualcuno di loro se ne va, cedendo alla pressione oppure per altri motivi, penso che questo non avrà una grande incidenza. Certo si tratta di diradare le nostre file già non troppo numerose (intanto non si è fatta nessuna propaganda, perché qui si tratta di argomenti e di dialogo e non di numero di voti), ma questo in sostanza non può incidere sulla situazione.
Ho l’impressione che la situazione non verrebbe sostanzialmente toccata neppure se un’alta percentuale di firmatari cedesse per un verso o per l’altro: il contenuto di Charta 77 ha il suo peso e non lo può più perdere. Potrà sembrare paradossale, ma l’attività dei chartisti non potrà veramente avere termine poiché – ne sono sicuro – non si riuscirà mai a raggiungere su questo una consonanza di sentimenti. Per farlo bisognerebbe incontrarsi, discutere la cosa e poi votare. Questo non è possibile, finché i chartisti non saranno riconosciuti dagli ambienti ufficiali e finché saranno loro negati questi incontri e questi contatti. Per poter arrivare a un simile risultato bisognerebbe cambiare molte cose. Ma sui cambiamenti di questo genere i chartisti non possono avere altra influenza che quella del catalizzatore in una reazione chimica. Come è noto basta un po’ dell’elemento catalizzatore per accelerare la reazione.
Forse dovrei formulare ancora i motivi per cui non intendo emigrare all’estero dove potrei trascorrere senza dubbio una vita più facile. È proprio della filosofia avere sempre una visione globale. Per questo mi chiedo: in Occidente potrei, più di qui, lavorare per il futuro dell’umanità e del mondo? Penso di no. Nei paesi occidentali, sia in Europa, sia oltre oceano, influenzeranno il futuro del mondo soprattutto i non conformisti, che danno un giudizio netto sulla società e denunciano, senza lasciarsi corrompere, le piaghe più profonde, nascoste sotto inutili palliativi. Questi però devono essere uomini profondamente legati alla vita del luogo in cui vivono, con radici profonde in esso, che si riallacciano alle migliori tradizioni della loro terra. Come straniero, come ultimo venuto, io non potrei essere di grande aiuto. Invece so quali sono le migliori tradizioni cèche, ho radici solide in questo paese, lo capisco (decisamente meglio di altri) e sono convinto che mi potrebbe offrire i tesori di tutta l’umanità. Perché dovrei lasciarmi buttar fuori come un cane rognoso da gente che di questo non ha neppure la minima percezione? Infine non si tratta neanche di me e della mia famiglia, ma si tratta del compimento (o piuttosto del compiersi graduale) del senso della storia cèca all’interno del senso del mondo. La strada cèca porta – e porterà ancora a lungo – ai paesi dell’Europa occidentale; io vedo in questo la nostra (anche se non esclusivamente nostra) missione storica. Il futuro del mondo dipende in misura notevole dalla possibilità di democratizzare gradualmente, senza le parentesi violente dei cataclismi sociali, il cosiddetto socialismo reale (cioè il territorio in cui domina). Sono convinto con tutto me stesso che questo è possibile; anzi, nell’ottica della storia del mondo, è necessario. Ma non è, e non sarà mai possibile, ottenerlo dal di fuori!
Praga, 12 maggio 1977.