- in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 137–146
- This is a translation of the original document:
- Dopis příteli č. 14
Caro amico,
vedo che non posso evitare di affrontare ancora una volta un tema che riguarda una persona, e diventato di attualità. Tu dici che come la partenza di Mlynář per l’esilio, così anche la rinuncia di Havel a fare il portavoce della Charta è più di una ritirata individuale per la stanchezza provocata da una pressione martellante. Dici che è piuttosto il sintomo di un sentimento che si sta diffondendo, che non ha senso sbattere la testa contro il muro. Per fortuna usi la parola «possibile». Quello che mi ha dato più dispiacere è stata la tua domanda su come questo «tradimento» può condizionare il credito morale della Charta e dei chartisti.
Mi conosci già da abbastanza tempo per sapere che non ho la tendenza a indorare le cose e neppure a essere più severo nel giudicare gli «altri» che i «nostri». Non voglio negare di non essere entusiasta né della decisione di Mlynář (del resto non è il solo) di andarsene via da un paese in cui significava qualcosa (anche se su molti punti sostanziali né in passato né ora mi sono trovato d’accordo con lui) né della rinuncia di Havel già durante l’arresto preventivo e dello sbocco che la faccenda ha avuto dopo la scarcerazione; non voglio cioè negare di non potere in nessuno dei due casi segnare qualche punto a favore della Charta. Riconosco anzi che in questa faccenda qualche punto a favore lo può segnare l’apparato dello stato, e in particolare la polizia segreta. Sono cose che succedono. Non si tratta di una lotta senza danni, di una guerra senza perdite e anche senza errori da parte dei vincitori. Tuttavia è improprio usare per uno qualsiasi di questi due casi la parola «tradimento», è un segno di isterismo e di fanatismo oppure di una coscienza contorta e piena di complessi. Ti suggerisco di fare, solo per te a titolo di prova, una piccola statistica. Quando qualcuno parla in tono di disprezzo della rinuncia di Havel, verifica che cosa lui ha fatto personalmente per l’applicazione dei diritti umani e civili. Noterai una cosa interessante: in linea di massima, quelli che montano in cattedra a dare una censura morale sono individui che non ne avrebbero il minimo diritto; al contrario chi lo avrebbe si mostra molto più discreto nei suoi giudizi. E, del resto, non sono molte le persone che avrebbero il diritto di condannare Havel. Lasciamo perdere le calunnie giornalistiche; quanto Havel ha scritto e fatto negli ultimi anni non può non suscitare rispetto in qualunque individuo dotato di senno. Il fatto che per definire pubblicamente Havel si sia ricorsi alle condizioni in cui crebbe, si trasforma in un elemento a suo favore poiché niente di questo risulta dalla sua opera. La chiarezza e l’intima verità della sua visione del reale non si possono far derivare dalla sua condizione sociale né dalla posizione che in passato o attualmente egli ha nel nostro paese, oppure dal credito di cui gode nel mondo. Gli sciocchi che non sanno dire niente di positivo sulla sua opera si rifugiano in menzogne tipo chi lo paga, chi finanzia le rappresentazioni delle sue commedie oppure la pubblicazione delle sue opere del tutto inutili dato che, a quanto si dice, non esiste un pubblico ad esse interessato. Anche ammesso che veramente i drammi di Havel non interessino nessuno, questo non dice nulla sulla loro qualità; a parte poi che non è affatto vero che non interessino nessuno. Noi stessi abbiamo interpretato per lungo tempo le opere di Havel in chiave di critica ironica delle deformazioni della società socialista (e questo sarebbe anche stato giusto); soltanto la diffusione dei suoi drammi all’estero ha dimostrato che la lucidità della sua visione non si attenua, se gli spettatori o i lettori si riferiscono al proprio ambiente e intendono l’opera alla luce della propria esperienza di una società che in molti punti è diversa dalla nostra. Havel non è affatto uno scrittore antisocialista; chi vuole sostenere una simile tesi prova solo di aver bisogno di identificare il socialismo non solo con le deformazioni ad esso proprie, ma addirittura di identificare nella sua ottusità il socialismo con le deviazioni e gli assurdi della società moderna in genere, cioè con quegli assurdi che si possono riscontrare sia in Oriente sia in Occidente. Quindi non ha il diritto di condannare Havel chi non lo capisce, chi non ha compreso la sostanza del suo impegno artistico, chi non ha penetrato l’essenza della sua creazione.
Havel è però il prototipo dell’artista impegnato che non si accontenta di raggiungere un alto livello professionale nella propria produzione, ma vuole impegnarsi sia nel campo della propria produzione sia in quello della vita civile. Sotto questo aspetto egli è oggi uno degli esempi più tipici fra gli esponenti della cultura cèca. Si può non essere d’accordo con certe sue posizioni, ma non si può non prenderle sul serio, oppure ignorarle o scherzarci su. Non si può negare che non abbia avuto coraggio. Se ha rinunciato a fare il portavoce di Charta 77 non è stato per paura oppure perché ha dato per spacciata la Charta: lo prova il fatto che è rimasto tra i firmatari e che dopo la scarcerazione ha smentito notizie secondo cui avrebbe mutato il suo atteggiamento verso la Charta e preso le distanze dai suoi princìpi. Fare una cosa simile nella sua situazione penso che richiedesse più coraggio di quanto ne ha mostrato la maggioranza dei suoi critici. Non penso che abbia il diritto di condannare la decisione di Havel chi, ad esempio, non sottoscrisse la Charta e adesso all’improvviso vorrebbe parlare come esperto a nome dei chartisti.
In tutta la faccenda comunque non si tratta solo della persona di Havel e del suo caso particolare. Nessuno di noi sa come ci comporteremmo in situazioni limite finché non ci capitano e finché in esse non ci conosciamo fino in fondo. Alcuni di noi resistono di più, altri di meno. È ingiusto e disumano imporre ad un’altra persona un carico che neppure noi saremmo in grado di portare. Tanto più che nella vita civile quella di «sopportare» molto non è l’unica e neppure la principale virtù. Il dramma moderno non ha in primo luogo bisogno di autori che non si lasciano intimorire, ingannare ecc., ma piuttosto di autori che sanno scrivere. Se poi qualcuno nei pericoli della vita si comporta con coraggio, questo è umanamente grande e degno di rispetto, ma non fa di lui un poeta più grande, un matematico più insigne o un politico più abile. È del tutto normale che anche tra i firmatari di Charta 77 si possano trovare individui che – nonostante abbiano dimostrato una dose notevole di coraggio firmando Charta 77 – non resistono alle difficoltà, alle repressioni, alle persecuzioni ossessive. Perché non dovremmo avere comprensione per queste debolezze? Perché non dovremmo avere comprensione per uomini infermi, deboli di nervi o troppo sensibili? Questo non vuol dire che dobbiamo anche noi addurre un pretesto simile. E non significa che dobbiamo far finta di non conoscere questo aspetto. Dobbiamo renderci conto che nella lotta che conduciamo e in cui, come l’esperienza ci ha insegnato, si fa ricorso contro di noi a tutti i mezzi più illeciti, ogni debolezza rappresenta indubbiamente un peso grande. Già solo i riguardi per lo sposo e i figli; è molto difficile, se non addirittura impossibile, affrontare lotte rischiose se il nostro uomo o la nostra donna non sono accanto a noi. Abbiamo anche su di noi la grossa responsabilità di rendere la vita difficile ai figli. Anche per i nostri vicini siamo d’impaccio se in piena notte devono assistere ad una perquisizione nel nostro appartamento. Nemmeno nel posto di lavoro saranno entusiasti se di tanto in tanto ci tengono per due, quattro giorni alla polizia. Se in famiglia abbiamo una persona anziana o ammalata dobbiamo preoccuparci della salute in occasione di eventuali perquisizioni e arresti. Di tutto questo noi non abbiamo colpa, ma si può ben sfruttare il fatto che abbiamo dato un calcio a qualcuno. Per questo è bene che chi si accinge a lottare per i diritti dell’uomo abbia lo scudo il più possibile pulito e il meno possibile di debolezze. Se Václav Havel ha deciso di non poter più svolgere la funzione di portavoce, perché oggetto di procedura legale (e pertanto vulnerabile), le dimissioni sono un suo pieno diritto. Abbiamo ancora in mente come furono sfruttate a danno di Vaculík le negative trovate nel suo appartamento; un firmatario di Charta 77 può essero calunniato, ricattato e screditato in altro modo. Non abbiamo nessuna delicatezza l’uno verso l’altro. Non esistono regole che impongano il rispetto (anche se talvolta incontriamo individui rispettabili). Dobbiamo, per così dire, essere pronti a tutto: non sappiamo tutto quello che ancora può capitare.
Una cosa comunque risulta chiara a chiunque sia disposto a un minimo di riflessione. Chi ha dato per spacciati la nostra società, il socialismo, se ne sta nell’ombra, protetto.
Tutti coloro che hanno intrapreso la lotta per i diritti umani e civili e il loro rispetto nel nostro paese, dimostrano di nutrire speranze per questo paese. Per la maggioranza di noi, l’emigrazione sarebbe stata una soluzione privata buona e utile; la maggioranza di noi in Occidente avrebbe trovato da vivere decorosamente, avrebbe potuto svolgere il proprio lavoro, i nostri figli avrebbero potuto studiare in condizioni normali e secondo le proprie attitudini, il nostro standard di vita si sarebbe notevolmente elevato. Se, salvo poche eccezioni, non pensiamo all’emigrazione, è proprio perché speriamo in un miglioramento della situazione, e non solo per noi ma per tutti. Io sono convinto che Havel, se lo avesse chiesto, avrebbe ottenuto subito il permesso di espatrio. Non è escluso che gli abbiano fatto questa proposta. Perché Havel rimane qui? Perché è rimasto dopo l’agosto del 1968? Perché siamo rimasti noi, che siamo più vecchi e che, dalla conclusione degli studi alla breve stagione che segui il gennaio 1968, non abbiamo potuto svolgere il lavoro per cui avevamo la qualifica e che amavamo? E perché sono rimasti quelli che non hanno potuto completare gli studi, che sono stati sospesi dalle scuole superiori subito dopo il febbraio o più tardi? Perché sono rimasti quelli i cui parenti sono stati in carcere per lunghi anni, sono morti in carcere oppure sono stati giustiziati? E perché sono rimasti anche coloro che negli anni cinquanta e poi negli anni sessanta subirono condanne di dieci, venti anni o addirittura a vita al carcere e ai campi di lavoro? Tutti questi casi si possono davvero «risolvere» chiamando in causa la debolezza e la stanchezza delle persone, dicendo che si tratta di gente avanti negli anni, in un’età in cui ricominciare daccapo è difficile, che è attaccata a proprietà a cui non vuole rinunciare (eppure siamo in molti a non avere né una casa propria, né una catapecchia, né l’auto – ma la propaganda ufficiale sceglie quelle poche personalità che possiedono questi beni), arrivando addirittura a dire che essi sosterrebbero il ruolo di «dissidenti» perché pagati dall’estero? Ogni individuo dotato di ragione vede chiaramente che si tratta di assurdità o tutt’al più di singoli casi eccezionali (esclusa l’ultima possibilità che costituisce un’assurdità totale). Tutti noi siamo rimasti qui perché crediamo in un destino migliore per questo paese e perché siamo dell’opinione che, andandocene oppure stando zitti o mostrandoci indifferenti, allontaneremmo nel tempo questo destino migliore e ne renderemmo difficile la realizzazione. Qui per noi non si tratta innanzitutto di noi stessi e della nostra famiglia; qualcuno ci considera pazzi perché danneggiamo senza ragione noi e i nostri figli. Ci siamo assunti vari rischi e solo alcuni siamo in grado di valutarli. Solo un infame bugiardo o un calunniatore possono dire che noi ricaviamo un utile personale. Per noi comunque di che cosa si tratta veramente?
Qui bisogna distinguere. Chi alimenta la propria speranza a livello politico (in senso più stretto a livello di potere politico), insegue delle fantasie, oppure non resiste a lungo. Una comune analisi politologica non può oggi offrire che prospettive nebulose. Dal punto di vista del potere politico la nostra situazione è sostanzialmente senza uscita. Per questo, né l’errore politico più grave, né un fallimento completo oppure il «tradimento» (qualora vi si arrivi) possono cambiare niente in peggio, perché già così va male. Su questo la maggioranza di noi non si fa illusioni e non intendiamo diffonderle. Se devo parlare per me (e in questo caso è la cosa migliore), il mio obiettivo principale non è un’azione politica (in senso più stretto un’incidenza diretta sulla situazione del potere politico). Temo che nella situazione presente si tratterebbe solo di un cambiamento di persone e sarebbe difficile dire con certezza assoluta che sarebbe in meglio. La vita collettiva del resto (e tanto più quella individuale, personale) è determinata da motivi diversi dalle pressioni esteriori o per lo meno anche da altri motivi. Anche se la speranza nel futuro di questo paese, dell’Europa, del mondo intero e di tutta l’umanità non si può fondare su alcuni indici oggettivi favorevoli (tuttavia per quello che riguarda un contesto più ristretto e le prospettive storiche future, anche questi indici potrebbero essere smascherati) sono del parere che il punto decisivo in cui si decide il futuro del popolo, della civiltà e oggi anche di tutta l’umanità, è l’ambito della responsabilità personale, dell’orientamento della vita, del fondamento spirituale, morale e anche delle idee. Ma una decisione responsabile può prenderla solo l’uomo che comprende la sua epoca, la situazione concreta e se stesso; l’uomo che sa svelare gli inganni, le illusioni e i pregiudizi del suo tempo e della sua società; l’uomo che sa pensare con rigore e obiettività e anche l’uomo che non si lascia trascinare dall’attimo, che sa attendere con pazienza e già ora vive il futuro in cui spera e in cui fonda la propria speranza. Per tutto questo gli sono indispensabili una apertura assoluta e una devozione profonda per la verità, alla cui luce vuole vedere tutto quanto lo circonda e se stesso, il prossimo, gli amici, e coloro con cui percorre lo stesso cammino.
Tener conto degli appoggi esterni, di alcuni trend di portata mondiale, delle inerzie della storia e dei suoi meccanismi inarrestabili e irreversibili, ecc., talvolta può lasciare senza alcuna prospettiva, oppure alimentare illusioni. Tutti i passi in avanti e che hanno portato ad un livello più alto, sono stati sempre inverosimili – come del resto inverosimile è tutta la vita. Verosimili sono gli inganni e le illusioni, gli errori e il falso – il massimo dell’inverosimiglianza è la verità. E proprio da questa inverosimile verità tutto in ultima analisi dipende.
Per noi tutti che siamo ridotti all’impotenza e alla disperazione, la speranza è la verità. Noi non cercheremo mai di uguagliare negli strumenti del potere, nell’apparato propagandistico e nelle sicurezze materiali di ogni genere, coloro che minacciano e annientano noi (e molti altri, quasi tutti, me compreso). Il nostro futuro non è nelle nostre mani, non dipende dalle nostre decisioni. Ma se noi siamo al servizio della verità, le sconfitte saranno solo parziali e temporanee, mentre per coloro che si guardano dalla verità e sono costretti a temerla la sorte è già segnata.
Adesso posso rispondere alla tua seconda domanda, di carattere più generale: come alcuni errori, alcuni fallimenti oppure eventuali casi di «tradimento» possono condizionare il credito morale di Charta 77 e dei chartisti. La Charta e i chartisti saranno perduti quando diventerà per loro primaria la preoccupazione del proprio credito morale. Charta 77 avrà senso fino a quando non comincerà a preoccuparsi di sé, della propria reputazione, dell’integrità dei propri firmatari, del loro buon nome. La Charta, nella situazione attuale, resiste o cade a seconda della sua lealtà nei confronti della verità e della sua solidarietà con tutti coloro che, a costo del sacrificio personale, si sono messi al servizio della verità. In concreto questo vuol dire che Charta 77 svolgerà la propria funzione e la propria – a mio parere grande – missione finché non cesserà di far vedere come stanno le cose, di illuminare alla luce della verità tutte le menzogne e tutte le oppressioni. E finché resterà fedele uno solo, l’ultimo firmatario, un solo uomo nel nostro paese, magari uno che non ha firmato la Charta, la causa che Charta 77 ha fatto sua non sarà perduta. Nella lotta fra il potere e la violenza da una parte e la verità debole e disarmata dall’altra, sarà la verità a vincere (anche se occorrerà attendere con pazienza questa vittoria). Come scrisse Rádl 44 anni fa: «Tutti gli uomini hanno il dovere di lottare per la giustizia e la verità; il mondo sarà liberato nel nome della verità, non nel nome della violenza».
Praga, 26 maggio 1977.