Lettera n. 19
docx | pdf | html ◆ article | correspondence, Italian, origin: 4. 8. 1977
  • in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, p. 189–197

Lettera n. 19

Caro amico,

mi hai scritto a proposito delle discussioni con i tuoi amici sul carattere dei cosiddetti diritti umani; alcune idee a cui fai cenno sono interessantissime. Proprio di recente un mio amico giurista mi faceva notare un intervento presentato alla conferenza scientifica organizzata nei giorni 17 e 18 gennaio a Praga nella Casa della cultura e della scienza sovietica in collaborazione tra il corpo accademico dell’Accademia cecoslovacca delle scienze, l’Unione dei giuristi e la Casa della cultura e della scienza sovietica. L’autrice dell’intervento, la prof. Milena Srnská, vi esponeva una serie di tesi, alcune delle quali si rifanno direttamente ai temi dei vostri colloqui. E poiché la relazione che tu hai fatto è troppo breve e abbastanza generica, nel mio commento partirò dalla relazione della prof. Srnská come è stata pubblicata nel numero 5–6 di quest’anno della rivista «Právnik» (p. 490–495). Premetto che non mi considero un competente nel campo della teoria del diritto; però il problema in questione riguarda piuttosto il campo della filosofia del diritto. Del resto nella filosofia non sono ammesse le specializzazioni che noi conosciamo nelle scienze, poiché la filosofia cessa di essere filosofia appena perde il suo rapporto con il tutto. Quindi il filosofo ha il diritto e il dovere di occuparsi di qualsiasi problema e di qualsiasi tema quando questi investono contesti più ampi, più generali. E non c’è dubbio che il problema dei diritti umani è importante per la concezione dell’uomo e della società. Qui ha quindi un ruolo primario la competenza del filosofo; come il fisico non è competente e lo è solo in second’ordine per valutare la natura della materia, dell’energia ecc., così il giurista non è competente, oppure lo è solo in second’ordine, per valutare la natura del diritto in generale e dei cosiddetti diritti umani in particolare. Appena il fisico e il giurista esprimono la loro opinione in questo campo, de facto essi perdono la loro specializzazione ed entrano nel campo della filosofia; quindi in questi casi devono procurarsi una competenza filosofica.

La prof. M. Srnská parte dalla premessa piuttosto discutibile che l’essenza dei diritti umani nella società socialista è diversa da quella dei diritti umani nella società capitalista. Se questo fosse vero non sarebbe possibile nessuna convenzione internazionale sui diritti umani e civili. Il fatto stesso che i due Patti internazionali siano stati sottoscritti e ratificati sia dai paesi socialisti sia da quelli capitalisti prova che, riguardo ai diritti umani, c’è qualcosa di comune alla società tutta e questo «qualcosa» è così importante da far passare in secondo piano le differenze, tanto che esse non sono più d’ostacolo per questi accordi internazionali. Quindi è demagogico dire che nella società socialista i diritti umani si differenziano nella sostanza dai diritti umani nei paesi capitalistici; altrettanto demagogico è dire che la sostanza della democrazia socialista è diversa da quella della democrazia borghese. Eppure c’è una differenza molto importante.

Un regime democratico e una struttura politica democratica sono un prodotto comune e quindi umano; quello che è e quello che non è democrazia è una questione di accordo sui termini, una convenzione anche quando è motivata nel modo più convincente e meditato. Quindi, se nella disputa su ciò che è democrazia entrano degli interessi materiali (per esempio di classe), è anche possibile che non si arrivi e non si possa arrivare ad un accordo. Ad esempio, il teorico borghese della democrazia insisterà sul principio che elemento integrante e inscindibile dell’essenza stessa della democrazia è la libertà di iniziativa e la libertà di possedere i mezzi di di produzione nell’iniziativa individuale e la libertà di possedere i mezzi di produzione in proprio. Un teorico del genere non considera quindi come reale la democrazia socialista. Date queste premesse non risulta possibile nessuna convenzione internazionale e nessun patto sulla democrazia e sulle strutture democratiche, a meno che entrambe le parti non si mettano d’accordo su ciò che il socialismo ha in comune con la democrazia borghese. Allora gli accordi internazionali potrebbero essere stilati proprio su questi elementi comuni. Lo stesso vale per i Patti internazionali sui diritti politici, sociali, economici, ecc. Questi Patti concernono la definizione giuridica di norme positive concrete che garantiscono, nei singoli sistemi giuridici all’interno degli stati, il rispetto dei diritti umani e civili come vengono formulati nei documenti internazionali. Questa definizione giuridica porta sempre certi segni della società in cui è nata e per la quale è vincolante. Comunque le convenzioni internazionali riguarderanno sempre quelle parti delle norme interne degli stati che sono comuni sia alla società capitalista sia a quella socialista (e ad eventuali altre).

A questo punto bisogna ricordare un altro grave errore di concezione della prof. Srnská che si riferisce al rapporto fra gli accordi internazionali e le definizioni interne relative ai diritti umani e civili. Scrive l’autrice:«… in base ai Patti, cioè con la ratifica dei Patti, si creano dei legami giuridici fra gli stati che hanno il dovere di realizzare con proprie disposizioni interne gli impegni presi con i Patti; non è mai passato il principio per cui, secondo i Patti, il singolo diventerebbe portatore di diritti soggettivi» (483); «ogni documento rappresenta un accordo in merito ai diritti e ai doveri fra la volontà dei soggetti del diritto internazionale, quindi soprattutto gli stati. Se si tratta di un documento di carattere contrattuale esso rappresenta anche l’accordo fra le volontà sull’obbligatorietà giuridica. Se quindi si tratta di documenti accettati a livello universale, e si tratta soprattutto di questi, si tratta nel diritto internazionale contemporaneo di esprimere una volontà concordata fra stati a diverso regime sociale. Nel campo dei diritti umani questo significa allora esprimere la volontà concordata fra gli Stati in materie in cui la regolamentazione interna degli stati che si esprime con disposizioni legislative e di altro genere è per sua sostanza fondamentalmente diversa fra gli stati capitalistici e quelli socialisti. Quindi i documenti internazionali esprimono e possono esprimere solo uno standard concordato in linea generale, la cui realizzazione e concretizzazione è una faccenda interna degli stati. La realizzazione di uno standard inteso generalmente come democratico nella norma internazionale può essere funzionalmente diversa nella democrazia formale borghese da un lato e nella democrazia reale socialista dall’altro». (480. I corsivi sono dell’autrice).

La premessa non espressa dalla prof. Srnská è la dipendenza dei diritti umani e civili dalle disposizioni giuridiche concrete dei singoli stati. La prof. Srnská presuppone che questa dipendenza sia totale, che gli stessi diritti umani vengono direttamente costituiti dalle disposizioni legislative dei singoli stati e polemizza con l’idea che essi possano essere concostituiti o addirittura indicati in anticipo negli accordi internazionali. Questo è un falso problema, fondato su concezioni che oltrepassano l’ambito delle considerazioni prettamente giuridiche ed entrano nella problematica filosofica. Come dalla norma giuridica non viene garantita o costituita la paternità di un’opera d’arte, ma solo il modo come una data paternità viene rispettata; come il rapporto fra due persone non è fondato sul contratto matrimoniale ma solo riconosciuto a livello sociale, così i diritti umani non vengono costituiti da nessuna legge e da nessuna convenzione, da nessuna norma né interna né internazionale: dalle leggi, dalle norme, essi vengono solo riconosciuti, rispettati e garantiti concretamente (oppure non rispettati e non garantiti, ma violati). È elementare che i diritti umani e civili sono vincolanti e valgono sia che uno stato li riconosca e li garantisca oppure no; i diritti umani e i diritti civili in essi contenuti hanno un carattere universale e sono nella loro sostanza indipendenti da qualsiasi riconoscimento da parte dello stato (o della società). Dalla società e dal regime statale (e in genere dalle circostanze storiche, ecc.) dipendono solamente la loro applicazione e la misura e la forma della loro evidenza e consapevolezza in una data società. La lotta per i diritti umani è appunto legata alla lotta per la loro applicazione e il loro rispetto e contro la loro violazione; è anche una lotta perché essi siano compresi e proclamati meglio, in modo più preciso e pieno. Comunque i diritti umani non vengono costituiti da questa comprensione e da questa applicazione, ma vengono prima, come norma e criterio. La solidarietà reciproca che unisce ogni uomo a un altro uomo e la responsabilità verso l’altro si fonda nel dovere di ognuno di rispettare i diritti e le libertà dell’altro. Quindi la citata «realizzazione e concretizzazione» all’interno degli stati dello standard convenuto a livello internazionale ed espresso nelle convenzioni e negli accordi internazionali, non è e non può essere esclusivamente una faccenda interna di uno stato; non è una faccenda interna neppure quando lo stato non ha accettato le convenzioni internazionali.

Lo stato, i cui rappresentanti hanno sottoscritto e ratificato i Patti internazionali sui diritti umani e civili e quello sui diritti economici, sociali e culturali, il quale viola e trasgredisce questi diritti si rende colpevole in tre sensi: 1) innanzitutto contro le proprie leggi poiché nell’atto di ratifica si stabilisce che dopo tre mesi dal deposito delle lettere di ratifica presso il segretario generale dell’ONU il Patto entra in vigore nel paese in questione e diventa parte integrante del suo ordinamento giuridico; in più il paese contraente si impegna ad adattare allo spirito del Patto, le sue leggi già vigenti che siano in contrasto con il Patto, in modo che le leggi esprimano quello che esprime il Patto; 2) si rende colpevole contro gli accordi internazionali, cioè contro i Patti che sono documenti di diritto internazionale, che i suoi rappresentanti hanno sottoscritto, accettato e ratificato; 3) e soprattutto si rende colpevole contro gli stessi diritti umani (e gli altri ad essi collegati), perché questi diritti non risultano né da accordi internazionali né dalle leggi interne degli stati, ma ne sono invece la norma e il criterio (sono comunque soprattutto norma e criterio dei rapporti reali fra gli uomini di una società e fra gli uomini di diverse società, sia che siano accolti positivamente nell’ordinamento giuridico oppure no).

Gli argomenti della prof. Srnská sono demagogici in quanto ella riduce la questione dei diritti umani (o civili) solo ai due livelli della sfera giuridica avulsa dai rapporti sociali e divide con un baratro i due livelli del diritto internazionale e di quello interno agli stati. A chiunque legga attentamente i documenti sui diritti umani risulta chiaro che queste interpretazioni di essi sono in contrasto sia con la lettera, sia soprattutto con il loro spirito; quello che risulta chiaro è che esse sono solo un tentativo di dare una giustificazione ideologica al nostro status quo. Sono grottesche le accuse secondo cui i firmatari di Charta 77 «usano il termine diritti dell’uomo e del cittadino» benché «nessuno dei documenti a cui si richiamano ne faccia uso» (483) ed è grottesca anche la sottolineatura che «non è mai stato accettato il principio che in seguito ai Patti il singolo diventerebbe portatore di diritti soggettivi» (ibidem). Che senso hanno queste strane affermazioni? La prof. Srnská vuole forse sostenere che i diritti umani, civili, politici, economici, sociali e culturali non riguardano i singoli ma solo la società nel suo insieme? Basta leggere uno qualsiasi dei documenti, a cominciare dalla Dichiarazione universale e dai due Patti, per incontrare subito una serie di formulazioni che confutano una idea simile: ognuno è abilitato a tutte le libertà e a tutti i diritti… ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale… ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta del proprio posto di lavoro… ogni uomo in quanto membro della società ha diritto alla sicurezza sociale… ogni individuo ha diritto all’istruzione…, nei Patti, gli stati riconoscono che ogni creatura umana ha il diritto naturale alla vita, che ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza personale, che ogni individuo ha diritto a rimanere della sua idea senza incontrare ostacoli, che ogni individuo ha diritto alla libertà di associarsi con altri e alla fine che l’individuo, avendo dei doveri verso gli altri e verso la società a cui appartiene, ha il dovere di impegnarsi perché siano promossi e rispettati i diritti fra cui, accanto ai diritti dei popoli, delle famiglie e dei gruppi sociali, vengono ribaditi soprattutto «i diritti dell’individuo», «i diritti di tutti i membri della famigla umana», «i diritti di tutti gli individui», «i diritti di ogni creatura umana», «i diritti di ogni cittadino», «il diritto di ogni uomo» (forse solo uno che non sa leggere non riesce a trovare queste formulazioni nei documenti).

Qui comunque il piano decisivo non è quello del diritto, ma quello sociale e in generale umano. La Dichiarazione universale dice che «tutti gli uomini nascono liberi e uguali per diritti e dignità» (art. 1). La prof. Srnská afferma che «la concezione del diritto naturale e la concezione che deriva dalle teorie moniste furono, in fase di trattative sui Patti, respinte con molta coerenza dai rappresentanti socialisti e dagli altri esponenti progressisti» (483). Ho già avuto più volte occasione di esprimere la mia opinione in materia (v. ad es. la glossa «Esistono diritti naturali?» su «Tvář» 1969, fascicolo 3, allegato p. 7–8; oppure nell’articolo scritto l’anno scorso per il cinquantenario di Kosík, gli accenni nelle lettere che ti scrivo ecc.). Sono persuaso che il concetto che gli uomini nascono liberi e con tutti i diritti è insostenibile. Questo però non significa che questi diritti e queste libertà glieli «dà» qualcuno, sia che si tratti della società o dello stato. Parlare di diritti umani è solo un modo per dire che gli uomini, tutta la società, e lo stato, hanno il dovere di rispettare il singolo come uomo, cioè di rispettare le sue libertà fondamentali e i suoi diritti inalienabili. Anche se nei Patti non si parla di diritti naturali (ad eccezione, per esempio, del «diritto naturale alla vita» nell’art. 6 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali, e culturali), nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, all’art. 5 comma 1 si dice esplicitamente che nulla di quanto è compendiato in questo Patto può essere interpretato «in modo da permettere a qualsiasi stato, gruppo o singolo, di svolgere attività o commettere atti che sopprimano qualcuno dei diritti o delle libertà riconosciuti in questo Patto o ne riducano la portata». In questa formulazione, sottoscritta e ratificata anche dagli stati socialisti, appaiono chiare due cose: la prima è che i vari diritti sono riconosciuti e non stabiliti dal Patto; la seconda è che lo stato può sopprimere i diritti o le libertà quando questi già preesistono e in questo la sua situazione è del tutto analoga a quella di qualsiasi gruppo o anche dei singoli (e infatti è messo in un’unica formulazione con essi).

Sono d’accordo sulla necessità di cercare delle motivazioni nuove e più adeguate e anche formulazioni nuove e più adeguate. Ma non c’è dubbio che bisogna insistere sul fatto che non è di competenza dello stato elargire ai propri cittadini diritti umani e civili poiché essi sono molto più antichi e molto più radicati di qualsiasi stato.

Praga, 4 agosto 1977.