Lettera n. 2
docx | pdf | html ◆ článek | korespondence, italsky, vznik: 17. 2. 1977
  • in: Lettere a un amico, Bologna: Centro Studi Europa Orientale, 1979, str. 29–36

Lettera n. 2

Caro amico,

ti meravigli perché io parlo dell’importanza dell’opinione pubblica mondiale (anche solo importanza relativa) e non accenno invece all’importanza delle prese di posizione dei rappresentanti ufficiali degli altri stati sul tema della salvaguardia e del rispetto dei diritti umani. Mi domandi anche se una pressione coerente esercitata dagli stati democratici su quelli non democratici non possa essere il mezzo più efficace per imporre il rispetto dei relativi articoli della Dichiarazione universale e dei due Patti (ed eventualmente anche degli altri accordi internazionali).

Devo confessare che sono un po’ scettico verso tutti i tentativi di dilatare e approfondire la libertà dell’uomo semplicemente ricorrendo a disposizioni e pressioni di potere. Il potere, infatti, ha una natura singolare: noi non possiamo immaginare la società umana senza il potere, ma al tempo stesso non possiamo nasconderci che esso ha una forte tendenza intrinseca a crescere a dismisura, a centralizzarsi, a sganciarsi dalla subordinazione all’uomo e alla società e a sottomettere anzi l’uomo e la società indipendentemente dalla collocazione concreta che l’uomo ha in essa. Nella storia moderna questo si vede benissimo nell’evoluzione dello stato, il cui apparato amministrativo e di potere si è ipertrofizzato al massimo e le cui disposizioni e i cui provvedimenti a poco a poco penetrano in tutta la struttura della vita individuale e sociale. L’idea dei diritti e delle libertà dell’uomo non si può disgiungere dalla lotta contro gli effetti disastrosi dell’emancipazione del potere dello stato che è diventato o sta diventando un elemento ibrido della società moderna, che minaccia di assoggettare e fagocitare l’uomo in tutte le dimensioni della sua esistenza: come individuo privato, come essere pensante e cosciente, come produttore, come membro della famiglia, come soggetto politico, come difensore di una data convinzione, come credente, come forza lavoro ecc. Sarebbe quindi ingenuo pensare, che possa essere lo stato, il proprio oppure uno straniero, la forza principale e decisiva nelle lotte per le libertà umane e civili. La preferibilità degli stati democratici non sta nel fatto che sono come stati migliori di quelli non democratici (un assolutismo illuminato, se fosse possibile fissarlo e controllarlo in qualche modo, sarebbe certo migliore della democrazia che è per forza più farraginosa) ma piuttosto nel fatto che nelle leggi sono fissati i limiti oltre i quali non si può andare. E il problema delle libertà e dei diritti umani e civili è proprio il problema del loro rispetto e della loro osservanza.

Ogni stato che si sia assunto la posizione di garante dei diritti e delle libertà umani e civili, li viola già ipso facto. Lo stato, infatti, deve riconoscere e rispettare i diritti e le libertà dell’uomo, ma non può mai costituirli, stabilirli e concederli. L’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali è un atto sovrano dell’individuo o di associazioni di individui per cui non occorre alcuna autorizzazione particolare né alcuna concessione da parte degli organi dello stato. Uno stato può opporsi all’esercizio di una libertà o di un diritto inalienabile, ma così facendo opera in modo ingiusto e, nella misura in cui fa questo, si rende colpevole di un torto. Se poi un simile torto viene commesso non più solo in casi sporadici o straordinari ma viene addirittura tutelato da leggi apposite o diventa un’abitudine e una prassi ordinaria, lo stato è già sulla buona strada per diventare uno stato ingiusto e criminale. Questa situazione, però, non è e non può neppure restare una sua faccenda interna, dato che essa offende brutalmente aspetti della vita privata e pubblica degli individui che non rientrano in nessuna competenza dello stato o dei suoi organi, in quanto sono fondati su diritti e libertà dell’uomo, inalienabili, insopprimibili e insospendibili. Lo stato che con una qualsiasi delle sue disposizioni viola questi diritti e queste libertà, va oltre le proprie competenze, afferma in modo ingiusto e illegittimo il proprio potere in un campo con cui non ha niente a che fare; pertanto esso può essere denunciato, criticato e condannato da chiunque, già solo in base alla elementare solidarietà umana che non può restare indifferente senza portare aiuto a ogni caso di violazione e di negazione dei diritti e delle libertà dell’uomo. Quindi, se in uno stato i diritti fondamentali sono violati, tutti gli uomini, in tutto il mondo, hanno il diritto e il dovere di protestare contro questo, senza tener conto delle frontiere. Ne deriva, ovviamente, che hanno il diritto e il dovere di premere sui loro governi perché, negli incontri e nelle relazioni internazionali, verifichino se i loro partner sono stati che rispettano i diritti umani o sono invece stati che li offendono. Tuttavia, determinante è sempre la solidarietà delle persone fra loro, la politica dello stato può essere solo una conseguenza. Del resto i provvedimenti politici di uno stato nei confronti di un altro non sono il mezzo principale né il più idoneo di pressione per far sì che in questo stato si affermino i diritti umani; neppure nel caso in cui questa pressione venga invocata da uno stato a cui non si può assolutamente contestare nulla sul tema dei diritti umani e civili. Tanto più problematica essa diventa poi quando nello stato che muove le critiche non proprio tutto è in ordine. E quindi valido il principio che è preferibile orientare la lotta contro le violazioni dei diritti umani e civili all’interno, cioè dentro il proprio stato o la propria società e solo in un secondo tempo davanti agli altri, all’estero.

Gli stati (e i loro rappresentanti) hanno la tendenza ad anteporre l’interesse dello stato al dovere di rispettare le libertà e i diritti dell’uomo, spesso passando sopra le teste dei cittadini, ma non di rado anche con il loro consenso. Così, in passato, potè accadere che nel patto di Monaco il destino della Cecoslovacchia democratica venisse sacrificato ai presunti interessi delle grandi potenze democratiche (male intesi). In realtà si trattò soltanto di cedere una data sfera di potere (per essere esatti tutta l’Europa centrale) al regime dispotico della Germania nazista, violatore dei diritti umani sia in patria sia soprattutto nei paesi stranieri assoggettati. Tutto questo avvenne senza contrasti; anzi addirittura con l’approvazione della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, sia in Inghilterra sia in Francia: le obiezioni nei confronti del patto furono allora pure eccezioni. In genere, di tutta la vicenda si mette in risalto l’aspetto di politica internazionale, ma molto più importante è il tradimento dei diritti umani e civili di milioni di uomini che si trovarono esposti, senza la possibilità di un efficace difesa, al terrore e ad angherie brutali. Questo tradimento ebbe il suo inizio più a monte nell’appoggio insufficiente dato ai repubblicani durante la guerra civile spagnola. Andò avanti, anche dopo la caduta del fascismo, sotto le forme dell’aiuto fornito ai regimi fascisti in Spagna e Portogallo e dell’assistenza in occasione della nascita della nuova dittatura fascista in Grecia, (accanto ai quali potremmo citare ancora il sostegno alle dittature mostruose oggi ormai spazzate via, del Vietnam del Sud, oppure a quella ancora esistente della Corea del Sud e a tutta la serie delle dittature latino-americane). Questi esempi ci devonó insegnare ad essere cauti nel valutare le dichiarazioni ufficiali rilasciate dagli statisti occidentali a sostegno della lotta per i diritti civili nei paesi che non rientrano nella sfera politica dell’Occidente. Queste dichiarazioni ci suonano false, proprio come le critiche appassionate agli scandali dell’Occidente che vengono da parte nostra (cioè da parte dei nostri rappresentanti ufficiali, dei nostri mezzi di comunicazione, ecc.). Non possiamo affatto essere soddisfatti se la nostra critica alla situazione del nostro paese viene sfruttata da chi non è mosso in primo luogo dall’interesse per i diritti umani e la loro violazione: come dimostra il fatto che non si cura affatto dell’applicazione o della violazione dei diritti umani nel proprio paese o in quelli fratelli. La critica alla violazione dei diritti e delle libertà dell’uomo è credibile solo a due condizioni: che sia rivolta con uguale rigore verso tutte le direzioni e che dia la precedenza all’affronto della situazione in casa propria, cioè che per prima cosa badi ai fatti suoi.

Ci sono comunque situazioni particolari, eccezionali, in cui la critica delle condizioni esistenti e la difesa dei diritti e delle libertà dell’uomo nel proprio paese è rigidamente perseguitato o resa impossibile da provvedimenti delle autorità o di altro tipo. In questo caso è necessario considerare estremamente utile e desiderabile ogni aiuto che viene dall’estero, anche quell’aiuto che sfrutta i mezzi propagandistici di potere, di politica internazionale, quei mezzi cioè che hanno un carattere per noi problematico. Strumenti di questo tipo non sono in grado di far applicare i diritti e le libertà nei paesi contro cui (cioè contro il cui discutibile regime) sono diretti; possono solo bloccare, neutralizzare o altrimenti controbilanciare l’arbitrio esistente, che ha generalmente a disposizione strumenti che dall’interno non è possibile eliminare se non a prezzo di enormi sacrifici.

Devo dire che non ho ricevuto una gran buona impressione dall’incontro di Helsinki e neppure dai suoi esiti. Non tanto, forse, perché i testi conclusivi non suonerebbero bene e c’è la possibilità di non accoglierli ma soprattutto perché non c’era niente che garantisse che ognuna delle parti li avrebbe presi sul serio. Mi veniva in mente ad esempio la pace di Augsburg, il trattato di Westfalia (la «pace di Westfalia») con cui si suggellò la guerra dei trent’anni. La differenza stava solo in questo: allora fu ancora possibile proclamare il principio della cosiddetta non ingerenza con lo slogan cuius regio eius religio; a Helsinki, mentre dopo molte difficoltà veniva alla fine approvato il cosiddetto terzo paniere, tuttavia si ribadiva la non ingerenza, e così oggi assistiamo al tentativo di far valere il principio della non ingerenza contro ogni passo ufficiale e ogni critica ufficiale nei confronti della mancata applicazione e del mancato rispetto dei diritti umani e delle libertà civili fondamentali. Non c’è dubbio che proprio nel nostro stato ad esempio la politica culturale scaturisce da un non dichiarato principio del cuius regio eius ideologia. In questo senso ad esempio vengono di solito interpretati gli articoli 10 e 24 della nostra Costituzione (in contrasto con l’articolo 28 o l’articolo 32 e adesso soprattutto in contrasto anche con gli articoli 13, 18 o 16 della legge 120)76, che ratifica il Patto sui diritti economici sociali e culturali, parte 23 della Raccolta delle leggi del giorno 13.10.1976) – in questo modo della scuola pubblica si è fatta una scuola di monopolio, anzi di partito, benché sia organizzata dallo stato. Noi evangelici cèchi, non possiamo non equiparare la situazione odierna, in cui siamo costretti a mandare i figli in scuole gestite all’insegna del cosiddetto ateismo scientifico (cosa che sono obbligati a fare, e sono probabilmente la stragrande maggioranza, tutti gli individui che non hanno orientamenti marxisti e che non vogliono che i loro figli siano educati in scuole che proclamano lo spirito dell’ideologia marxista), con il passato, allorché la raggiunta pace in Europa significò per noi la repressione delle libertà religiose proclamate soprattutto dalle lettere di maestà di Rodolfo e tutti gli evangelici dovettero rinnegare la propria fede oppure emigrare; infatti, finché restavano in patria erano costretti a lasciare esposti i loro figli ad ogni sorta di terrore e di repressione controriformista. Dopo Helsinki non c’è stato nulla che abbia dimostrato che il cosiddetto terzo paniere possa giocare un ruolo più importante di quello che già descrissi nella lettera precedente. Anzi, mi è parso che i governi occidentali non abbiamo alcun interesse a complicare i loro rapporti con l’URSS e gli altri paesi del blocco socialista con un richiamo troppo insistente al „terzo paniere“. A un cambiamento reale si è giunti solo in seguito alle iniziative dei cittadini ormai in tutti i paesi del nostro blocco. Questo è un fatto importante, direi di portata storica. Fin dalla prima guerra mondiale, la democrazia e le strutture democratiche sono in fase ascendente, mentre i regimi assolutistici e dittatoriali, non solo in Europa ma anche altrove nel mondo, si dimostrano sempre più privi di prospettive, economicamente inefficaci, culturalmente retrogradi e cronicamente instabili. Attraverso svariate peripezie la democrazia va avanti; in Europa sono crollati gli ultimi regimi fascisti, i partiti socialisti e comunisti guadagnano continuamente posizioni; i cosiddetti eurocomunisti uniformano il loro programma ai principi democratici e la democratizzazione gradualmente penetra sempre più a fondo anche nei paesi del cosiddetto socialismo reale per lungo tempo, ma ormai ancora temporaneamente, oppressi dalle deformazioni staliniste e da quella aberrazione antidemocratica che oggi è ormai riconosciuta come la revisione più grossolana ma anche più vasta del reale orientamento politico di Marx stesso. Quindi i nostri sforzi devono essere tesi soprattutto a rinnovare e a rigenerare il programma socialista usando forze interne e non basandoci su interventi politici internazionali. Mi sembra, comunque, che oggi questa speranza non debba più rannicchiarsi in qualche piega della nostra coscienza. Oggi e domani noi vedremo che questa vecchia ma sempre nuova speranza conquisterà i cuori di sempre altri uomini che ormai non intendono più sopportare ingerenze devastatrici nella vita propria, in quella dei propri figli, degli amici, dei concittadini e di quelli che in tutto il mondo condividono la condizione umana.

Praga, 17 febbraio 1977.